C’è un momento nella vita, una prima volta – una delle tante –, in cui vediamo i genitori da fuori. Un attimo fa erano parte del nostro io e adesso eccoli lì, non più il mio babbo, la mia mamma (come li avessimo generati noi), ma uomini e donne con un’esistenza propria, un passato in cui noi manco c’eravamo, un futuro insondabile quanto il nostro, un presente che risponde a logiche e necessità del tutto indipendenti da noi.
Odiavo mio padre, nell’estate del 1974. Lo odiavo come si odia un dente che duole, o il piede con cui abbiamo sbagliato il rigore nella finale del campionato della scuola. Lo odiavo perché – a causa del risibile motivo di una tonsillite con febbre altissima che si era beccata mia sorella – aveva interrotto sul più bello una meravigliosa vacanza in Sardegna (tende sulla spiaggia, amici con cui fare tutto il giorno pesca sub) per riportarci a casa (durante il viaggio di ritorno, naturalmente, mia sorella era guarita), attrezzare alla meglio il furgone Volkswagen con un paio di tavole in truciolato e ripartire (tutti e quattro, madre e sorella comprese, con un muso lungo così) per la direzione esattamente opposta: la Jugoslavia.
Non volevo essere solo con la mia famiglia, in vacanza. Li avevo intorno tutti i giorni, passare anche ciò che restava dell’estate noi quattro su quella specie di camper dei poveri no, per favore. Se mio padre aveva proprio deciso di venire via dalla Sardegna, non poteva lasciarmi lì, ospite degli amici?
Ruminando questi pensieri, quasi non mi ero accorto che nel frattempo ci eravamo entrati, in Jugoslavia, e a Rijeka-Fiume eravamo stati fermati da un sorridente ma inflessibile poliziotto, che aveva fantasiosamente accusato mio padre di “non avere rispettato semafòro”, e non ci aveva lasciati andare fin quando lui sbuffando non aveva pagato la multa.
Bene, e allora? Mi annoiavo in ogni istante. Avevo tredici anni e mia sorella, che ne aveva otto, era l’abitante di un lontanissimo pianeta dei bambini, finita per sbaglio dentro quel furgone.
Né le vie veneziane di Zara, né le chiare mura di Dubrovnik, né frotte di miei coetanei che si gettavano nel fiume dall’alto ponte di Mostar mi trassero fuori da quella nausea esistenziale. L’unica attività che mi dava requie era la pesca sub. A pelo d’acqua, nelle orecchie lo sfiato del boccaglio e lo sfrigolio delle onde, gli occhi attenti a cogliere ogni guizzo promettente, potevo fingere di essere ancora là in Sardegna, e che dopo ci saremmo riuniti per confrontare prede e avvistamenti.
Ma non ero in Sardegna. E il mare jugoslavo, per uno strano fenomeno percepito probabilmente soltanto da me, pareva deserto. Non prendevo niente, anzi non vedevo niente. Era frustrante. Poi la pesca sub in Jugoslavia non era libera come in Italia, ma sottoposta a un regime di autorizzazioni che variava da provincia a provincia. Poiché con quel maledetto furgone ci spostavamo in continuazione (altro motivo per cui odiavo mio padre: non era fisicamente in grado di rimanere nello stesso luogo per più di due giorni), in ogni nuova località io e mia madre – l’addetta designata – dovevamo recarci nell’apposito ufficio pubblico (spesso già trovarlo era un’impresa), aspettare, rispettosamente domandare, aspettare ancora, pagare, aspettare di nuovo e finalmente ritirare un foglio che nessuno avrebbe controllato mai.
Odiavo, oltre mio padre, la Jugoslavia. Mi auguravo che quel suo inutile, farraginoso mosaico di etnie e stati e province retto dal Maresciallo Tito andasse in pezzi. Col senso di eternità degli adolescenti, ero sicuro che ciò fosse impossibile. La odiavo ancor di più.
In questo quadro fosco, un giorno arrivò una novità. Mio padre cominciò a soffrire per un’uggia al braccio destro, poco sotto la spalla. Da semplice fastidio, in breve tempo il dolore divenne insopportabile. L’uomo che disponeva della mia vita secondo le sue imperscrutabili volontà, improvvisamente si ritrovava in balia di qualcosa (reumatismo? artrite? Al pronto soccorso non sciolsero il dubbio) di più grande di lui. Non riusciva più a dormire, ad alzare una forchetta, neppure a guidare. Il suo volto, spesso livido per il malumore, adesso lo era per quella morsa (anzi “un morso” lo descriveva lui) che gli serrava il braccio.
Sentii che questo stava capitando a lui, non a me. Che vederlo star male non mi faceva star bene, e aveva la secondaria conseguenza di azzerare in me l’odio e di sviluppare affetto nei suoi confronti. A un tratto non me ne importava più niente della Sardegna, degli amici, neanche della pesca sub (tanto, per quello che prendevo). Mi importava solo di trovare il modo per alleviare la sofferenza di mio padre.
Naturalmente, non lo trovai.
Uno dei più bei libri sui genitori e sulla Jugoslavia (in particolare su Sarajevo) è I miei genitori – Tutto questo non ti appartiene (Crocetti, 2022) di Aleksandar Hemon, autore bosniaco trapiantato negli USA. Scrive in inglese, ha caldo cuore balcanico e fredda testa anglosassone. Una combinazione vincente, almeno nel suo caso.