«Margherita non immagina nulla di tutto questo:
nessuno lo sa, tranne la scuola.
E la scuola è ovunque ci sia un ragazzo».
La prima cosa che mi viene in mente quando chiudo il libro e lo ripongo davanti a me è questa: «Chi abbia scelto di fare l’insegnante ha scommesso sui propri scolari, e in generale sui giovani, sulla loro capacità di apprendere – quale che sia il punto di partenza – e sul loro percorso di maturazione. E insomma non può concedersi il lusso di essere pessimista», lo ha detto Luca Serianni, nel 2017, alla Sapienza congedandosi dai suoi studenti. E aveva ragione. Le parole di Serianni mi vengono in mente, in realtà, ogni volta che incontro un insegnante, soprattutto alcuni tipi di insegnanti.
«La scuola è ovunque ci sia un ragazzo», scrive Gaja Cenciarelli, è la seconda cosa che mi resta in testa a lettura ultimata: lo ripete come un mantra tra le sue pagine, ben consapevole della verità di questa formula magica laica senza la quale a scuola non si entra.
A scuola non si muore: quando ho letto il titolo, ho pensato a Lorenzo Parelli, a Giuseppe Lenoci, a Giuliano De Seta: agli studenti morti durante percorsi di alternanza scuola-lavoro. Avevo collegato quel titolo a loro: mi risuonava in testa come uno striscione, striscione dei loro compagni studenti che hanno ancora fiducia nel mondo e camminano per le vie della città per far ascoltare messaggi scritti su un lenzuolo bianco, usando magari grandi caratteri rossi o neri, un po’ rotondi, come quelli che vengono quando le lettere si scrivono in fretta. A scuola non si muore è invece un’altra storia, o forse no, perché se è vero che il personale è politico, lo è anche l’invenzione e Cenciarelli inventa e costruisce con la penna di chi la scuola la conosce e usa anche tutti gli antidoti possibili a quella che invece è l’anti-scuola.
Sono in treno. Ho altri quarantacinque minuti di Frecciabianca che mi aspettano, mi rilasserò guardando fuori dal finestrino: mi va anche bene perché questo treno dà sul mare e se c’è una cosa che mi mette in pace col mondo, è proprio guardare il mare dal finestrino. Ecco, però, che salgono due tipe ben vestite, con una bella piega, blazer pastello – no, quella è una giacca perché queste due non usano la parola blazer, ne sono certa – si siedono e iniziano il rosario che non vorrei ascoltare. Sono troppo lontane per ricevere qualche risposta. Ma le sento.
Una parla male della nuora:
«A La Spezia te la sei andata a prendere che te potevi aspetta’?, ho detto a mio figlio», fa la prima. La seconda risponde continuando un discorso totalmente diverso che era cominciato mentre riponeva il trolley nello spazio tra i sedili, forzando un po’ i confini di quello spazio e mimando un mal di schiena perché ha dato una sederata a quello seduto dall’altra parte del corridoio:
«È un handicappato quello, glielo vorrei proprio dire alla madre. Sempre con quel cazzo de telefono in mano a rincoglionirsi!»
Entrambe portano avanti due discorsi su temi diversi che non si incontrano se non nell’impossibilità di ripeterli. Dopo quindici minuti, un signore le invita ad abbassare la voce.
«Scusi, parlo forte, ho questo tono, abituata coi ragazzi a scuola!», si giustifica la signora del discorso B con tono mellifluo stavolta, mentre la signora del discorso A la guarda compiaciuta (anche lei insegna, ma alle elementari).
«Capisco», fa il malcapitato. Che capisce pure che chissà che gli dici a quei ragazzi. Rallentano un po’, si distraggono cinque minuti di orologio – presumo guardando il telefono o sbirciando fuori dal finestrino. Riprendono. Stavolta ce l’hanno coi colleghi giovani che arrivano e pretendono di insegnare: «Come se bastasse un’abilitazione per capire quei ritardati. Che poi con tutti i rischi che corriamo! Non ce la faranno, vedrai… secondo me Tizianomeecognome scapperà! Questi oggi non vogliono lavorare, ma che gli insegnano?»
Sono troppo lontana per rispondere, dovrei far alzare uno accanto a me che dorme e mi fa da tappo, muro invalicabile tra me e il resto del treno, ma qualcosa avrei voluto dire a quelle due. Decido di continuare a guardare il mare, prendendo le cuffie, ma solo perché dopo aver letto A scuola non si muore, di Gaja Cenciarelli, applicherò a tutti gli insegnanti e le insegnanti non consapevoli del loro ruolo – e non solo, ma stavolta di insegnanti si tratta – il metodo Cenciarelli: immaginerò questi graziosi personaggi in un suo romanzo. Sarà Ferzetti a ritrovarli con le mani tagliate o con la lingua mozzata (in questo caso più appropriata). Si tratta ovviamente di punizioni metaforiche (non vorrei che qualcuno leggendomi mi immaginasse anche assassina), ma se c’è una cosa che mi manda in bestia, sono gli adulti che se la prendono coi ragazzi o quelli che li usano come una merce: ahimè, esistono.
Nelle prime pagine del romanzo di Cenciarelli, ho dato dei volti anche ad alcuni tipi fissi mentre li incontravo durante la lettura: alla preside, per esempio («Le parole sfumano davanti a quella donna tutta spigoli, perfettamente truccata, in giacca blu, minigonna e tacchi a spillo. Più giovane di lei, più determinata di lei, più capace di lei, più di alta di lei»). Ho dato una voce alle Magnani che ho incontrato da studentessa (o che ho tra i miei amici e sono costrette e costretti a subire i Colagrossi): degli insegnanti migliori che abbiamo avuto ci resta soprattutto la voce, quella delle poesie che ci leggevano, dei passi dei romanzi e ogni volta che li risentiremo letti da altri – o li leggeremo soli – penseremo a loro, a quegli adulti che ci hanno dato molti anni fa la fiducia e la forza per tentare di costruire il nostro mondo.
Credo che ognuno di noi abbia incontrato, per fortuna, almeno una Magnani: svagata, eppure attentissima, «troppo democratica», una di quei docenti «che diventano amici degli studenti», una di quelle che «tolgono dignità al ruolo di docente», secondo i colleghi figli di una certa impostazione passatista, ma tutt’altro che passata. Fragile, ipocondriaca, eroina coi piedi per terra. Purtroppo, sui treni, ma anche tra i banchi, o alle cene con amici post presentazioni, post spettacoli, post cinema, quando ognuno poi porta amici e amici di amici e la galassia delle conoscenze si allarga, ci è capitato – anche – di incontrare delle Croci («Ma Croci è solo pettegola, rompicoglioni, volgare, invadente, stupida. Pericolosa, certo, come lo sono tutti gli stupidi»): stavolta Croci è poco più avanti, ma io non la sento più, perché ho in cuffia A muso duro di Pierangelo Bertoli e mi dispiace molto per il signore, col berretto di lana rosso che fa molto Lucio Dalla, che tentava educatamente di zittirla. Vorrei che passasse un Ferzetti e le ascoltasse (origliasse, forse, direbbe lui), mentre va a prendersi un caffè nella carrozza ristorante, vorrei che rimettesse a posto quelle lingue (se c’è una cosa che non deve morire a scuola, quella cosa è proprio la lingua), ma forse è meglio che non ci sia nessun Ferzetti, s’adombrerebbe di certo a sentirle. Non passa nessun Ferzetti; mi volto, e sta invece arrivando Alice nel paese delle meraviglie: è salita a Viareggio, in effetti è Carnevale. Per un attimo ho pensato di non sentirmi bene: avrei bisogno di una tisana curcuma e zenzero, come la Magnani.
«A me piacerebbe tanto essere uno scrittore, quella sì che è intelligenza»: dice una citazione in esergo al libro che dà il la alle pagine di Cenciarelli: che è scrittrice intelligente e anche un po’ Tenente Colombo e anche paroliera raffinata. A un certo punto, scrive: «Nominare qualcosa di spaventoso vuol dire depotenziarlo, circoscriverlo. Spesso la traduzione, anche quella dei pensieri in parole, è un mestiere in perdita». Nel romanzo non toglie nulla al giallo (scritto anzi a regola d’arte), lo plasma con ironia, ne depotenzia volutamente – e solo volutamente – l’orrore in alcuni momenti, parla di scuola molto più di alcuni editoriali che hanno la pretesa di farlo («I ragazzi sono le felci della scuola: hanno bisogno di poca luce per vivere, e infatti vivono, prosperano, frusciano. Parlano, non abbassano la voce. I ragazzi sanno tutto come la scuola»), sa che la scrittura, come la scuola, è una cosa serissima, ma è bello tenere un tono semiserio, quello che aiuta sempre a sentirsi più persone che personaggi e a saper guardare le cose («Fanno tutti i professori, poi nun capiscono ‘n cazzo»).
E col metodo Cenciarelli ci aiuta a sopravvivere agli ambienti tossici, alle conversazioni moleste, insegnandoci a giocare coi difetti altrui, a catapultarli nell’invenzione, quando il dialogo si rivela impossibile, e a trasformarli – per gioco! – in un Colagrossi, un Taranta e una Depalo. Così, essendo Carnevale, quando le due tizie stanno per scendere, le guardo un po’ incredula come prima guardavo Alice nel paese delle meraviglie che avanzava verso di me sgranocchiando uno snack ai cereali, e le immagino mentre si trasformano in Colagrossi e Depalo, sono proprio loro (pazienza se il primo era un uomo, non mettiamo limiti all’invenzione): io però le voglio vedere intere, eh, a mo’ di avvertimento, insomma. Chi leggerà il libro non potrà dire altrettanto dei personaggi in questione. Ma i gialli non si raccontano: leggetelo.