La mia infanzia è stata, per come la ricordo, con gli anziani. Non che non avessi amici. Ma nel cortile di casa, insieme ai coetanei, ci stavo poco perché ero quasi sempre altrove. Altrove, coi vecchi. Quando potevo giocare volevo non finisse mai. Mamma mi chiamava dal balcone al quarto piano, “vieni su, è pronto”, “sali, è ora”, e io dicevo “ancora un minuto”.
La mia infanzia è stata con gli anziani o forse sono io che voglio pensare sia andata così. Ho trascorso anni, lo facevo un po’ per gioco, un po’ per noia e pure per affetto, a imboccare mia nonna pranzo e cena. Semolino e certosino. Certosino e semolino. Quando faticava a deglutire e con gli occhi mi diceva “aspetta”, ché le parole, e molto di più, se l’era portate via un ictus, m’investiva tutto il dolore del mondo, solo che non sapevo dirlo. Da mia nonna mi sentivo sola e nella pancia si faceva lentamente strada un male ovattato, costante. Quando il disagio diventava gomitolo senza bandolo e i pensieri una macchia nera cominciavo a far oscillare la corda dello scorrimento delle tende come un pendolo. All’infinito. Al fondo c’era un peso decorativo di ceramica pesante minimo come una grossa mela. Ogni tanto lo facevo oscillare troppo apposta e lui si abbatteva contro il muro con un rumore sordo. Fino a che l’intonaco non ha cominciato a creparsi e nel muro è comparso un buco. Quando sentivo che stavo per mettermi a piangere e che nella testa galleggiava qualcosa di simile alla nebbia chiedevo a mia madre, che di prendersi cura della sua ogni giorno non poteva fare a meno e mi portava con sé, di accompagnarmi dalle mie prozie, nella casa di fronte. Mi prendeva per mano, attraversavamo la strada et voilà.
Ad affascinarmi di quello stabile d’epoca era l’atmosfera. Inquietante, sinistra, cupa eppure avvolgente. Uno scalone conduceva a un appartamento buio sviluppato tutto in lunghezza. Il corridoio su cui si aprivano le stanze era senza fine ai miei occhi di bambina, i mobili ingombranti, in legno e di fattura artigianale, mi parevano chiudersi su di me ma non me ne sentivo oppressa.
Su una delle pareti un enorme tela raffigurante una tigre con le fauci aperte in mezzo a una fitta vegetazione esotica, sull’altra il ritratto a olio di una fanciulla con lo sguardo vuoto, le mani giunte in grembo, un crocifisso stretto tra le dita, al fondo una tenda in velluto spesso, pesante, verdone, quasi sempre tirata. Sapevo che, oltre quel sipario, c’era una terza stanza. Quella in cui era morta da poco Anna, l’avevo vista dopo che il prete era venuto a darle l’estrema unzione, la bocca aperta, un quadro della Vergine sopra la testa, una bacinella accanto al letto per le abluzioni rimasta lì, dov’era sempre stata.
La sala da pranzo, quella riservata alle occasioni importanti (che non occorrevano più da molto ché le mie due prozie, entrambe zitelle e anziane, vivevano sepolte in quel mausoleo che odorava di chiuso e naftalina) aveva solo una finestra sul lato ovest, dove tramonta il sole. Le sedie intorno al tavolo di legno con le gambe intarsiate a motivi floreali erano foderate di tessuto damascato bordeaux. Sul lato est, chiuso, un antico divano nello stesso stile su cui nessuno si sedeva mai perché nessuno veniva mai in visita.
Nelle camere da letto, gli scuri eternamente chiusi, dormivano Erminia e Giuseppina. Dormivano quasi tutto il giorno e quando sbirciavo, affacciandomi appena, inspiravo l’odore della morte. La morte che arriva sa di fiori appassiti. La badante calabra, un fazzoletto grigio in testa, mi parlava in mezzo dialetto mentre bolliva le verdure da frullare e rassettava qui e là. Mi offriva sempre una mela stracotta col miele e a poco serviva le dicessi che non mi piaceva perché era troppo dolce e la frutta cotta spappolata aveva la stessa consistenza del cibo che mangiava nonna e mi dava la nausea. “Panza chjina faci cantari”¹ andava dicendomi. Per il resto era tutto un tacere.
C’era qualcosa di affascinante in quella dimensione immobile e sospesa, dove la luce non trovava crepe in cui insinuarsi, eppure mi piaceva starci. Di norma mi piace quello che gli altri rifuggono. Sentivo quella casa mia perché mi pareva che, nei suoi silenzi, non mi giudicasse. Quando ho scoperto chi era Shirley Jackson e ho cominciato a consumare i suoi libri mi sono sentita bene. La sensazione di straniamento mischiata a un ché di soprannaturale – il tempo in quel luogo, che ora non c’è più, sostituito da un palazzo a dieci piani, si dilatava all’infinito – vissuta in quell’ambiente è la stessa che provo leggendo Jackson. Ogni casa, insegna lei che amava stregoneria ed occultismo e viveva in una dimora di diciotto stanze, senza domestica, con quattro figli, due alani, tanti gatti e vicini che la ritenevano decisamente stramba, porta con sé una storia. Ogni casa che abbiamo abitato o abitiamo influisce su chi siamo. Ogni casa respira e ci parla. Ogni casa è anche il riflesso di chi l’abita. Quella delle mie prozie pulsava e mi invitava a scoprire di più riguardo le mie paure. Era l’unico posto che mi faceva sentire al sicuro. “Fuori”, lo pensavo allora e lo credo ancora adesso, a volte, fa più spavento che “dentro”.
¹ Stomaco sazio fa cantare