«L’innamoramento è insignificante, la sua attesa invece è sostanziale». La frase è tratta da uno dei libri più belli e misteriosi di Javier Marías, Gli innamoramenti, un romanzo che ho dovuto leggere con lentezza, giusto qualche pagina al giorno, seguendo un ritmo che non derivava tanto da me, dai miei impegni, dalla mia distrazione, dalla mia incapacità di correre da un capitolo all’altro, ma dalla velocità che mi imponeva la narrazione. È un libro verticale, potrei dire: la storia di María Dolz, una giovane impiegata di una casa editrice che tutte le mattine, per anni, osserva dal tavolo di un bar una sconosciuta coppia di sposi, mi ha obbligato a scendere in profondità, perdermi nei ragionamenti e nelle considerazioni di María, allinearmi al suo sguardo periscopico, lasciarmi sollecitare da quella stessa fascinazione per la vita degli altri che il romanzo, nella sua ricercata discrezione voyeuristica, trasmette inesorabilmente al lettore.
«La realtà», scriveva un iconoclasta come Juan Rodolfo Wilcock, è splendente solo quando la si osserva dalla fessura di una porta, quando cioè non è «contaminata da un interesse o da un desiderio». Dietro lo splendore, però, si può nascondere una zona oscura. Alcuni anni fa, secondo un copione in qualche modo simile al romanzo di Marías, ho sperimentato questa zona oscura. Tutte le mattine, quando mi svegliavo nella mia casa di Roma, dalla finestra della camera che affacciava sul cortile, vedevo il portiere del palazzo che si occupava di tenere in ordine il giardino: annaffiava le piante, rastrellava la ghiaia del viale, potava i rami sporgenti e li insaccava in un grosso contenitore marrone. Era una visione quotidiana, dal lieve riflesso hitchcockiano: tutte le mattine quel basso uomo di origini campane svolgeva la stessa meccanica mansione, e io lo scrutavo al riparo della mia finestra, anche per un solo attimo, il tempo sufficiente per pensare, ok, tutto procede bene, tutto è normale. Un giorno però quel “normale” ha perso di consistenza, si è come slabbrato: il portiere ha smesso di curare il giardino, per diversi giorni, forse settimane, non si è fatto più vivo. Solo dopo qualche tempo dopo ho saputo che sua moglie era morta all’improvviso, portata via da un aneurisma che aveva colto tutti di sorpresa. La repentina velocità con cui può cambiare il destino è inversamente proporzionale alla lentezza con cui è regolata l’attesa: è in fondo proprio lei, come cantava Gaber, «il retroscena di questa nostra vita troppo piena», l’andar «via di cose dove al loro posto c’è rimasto il vuoto».
In questi giorni in cui un virus invisibile ci costringe a casa, e dunque ci pone di fronte a una forma d’attesa a cui non eravamo preparati – un’attesa elastica, che può dilatarsi secondo una dinamica che non possiamo controllare – ho avuto la sensazione che il libro di Marías mi stesse suggerendo qualcosa. Non so esattamente cosa. Anche lì, del resto, la normalità lascia di colpo spazio al vuoto. Basta una piccola variazione: un giorno la coppia di sposi non si presenta al solito bar per la solita colazione. La narratrice pensa che non ci sia nulla di strano, può succedere una volta che l’abitudine venga interrotta da un imprevisto casuale – un viaggio di lavoro, una vacanza, una banale indisposizione, anche più semplicemente una sveglia che non è suonata. Stavolta non è così, però: un destino tragico è precipitato su quell’uomo e quella donna scombinando per sempre le loro vite. Le conseguenze di questo destino travolgeranno in diverso modo anche María, trascinandola in un’oscura storia d’amore che la porterà a vedere la realtà da una prospettiva rovesciata.
Attesa e destino, dunque; o per citare ancora Gaber: «l’attesa è il destino». Forse è qui che si concentra la suggestione che Gli innamoramenti mi ha dato. Ripenso ai tanti momenti d’attesa della mia vita: lo schema prevedeva sempre la presenza di un punto di arrivo, un punto che non necessariamente era desiderabile: un traguardo importante, un impegno fissato sul calendario, la data di un esame, l’incontro con una donna amata, un responso che mi procurava agitazione, in ogni caso un punto che rappresentava un passaggio o una svolta. L’attesa era invece un lungo corridoio angosciante che sembrava senza fine, le pareti oblique, la luce fredda e dilatata, la sensazione di stare come dentro quei sogni in cui l’obiettivo si allontana quando ormai sei lì per raggiungerlo. Eppure, in questa assurda primavera del 2020, in cui mezzo mondo si è fermato per la Grande Epidemia, può avere senso ridare importanza all’attesa; l’attesa diventa anzi la nostra condizione esistenziale – l’attesa del mondo che conoscevamo e di cui sentiamo una struggente mancanza.
«L’attesa del piacere è essa stessa il piacere», scriveva Lessing più di due secoli fa. Ma se ciò che stiamo aspettando non è il piacere, se il traguardo è qualcosa di confuso e vago, che ci spaventa o di cui non consociamo l’esito, come possiamo far finta di niente? È quanto accade per esempio a Bertra Isla, un altro straordinario personaggio di Javier Marías, una donna che per anni aspetta il marito di cui si sono perse le tracce, non sa se è vivo o morto, sa solo che è un agente dei servizi segreti. Come può Berta accettare tutto ciò? La condizione umana è una lunga attesa – attesa di una fine più o meno remota, attesa di un giorno ultimo che prima o poi arriverà; eppure questa consapevolezza non ci impedisce di caricare di senso la nostra vita; anzi, l’attesa è l’unica condizione che ci è dato conoscere e sperimentare.
Anni fa mi sono imbattuto nell’annuncio funebre di un negoziante che conoscevo, e da cui mi rifornivo per l’arredo di casa. Andai al suo negozio con un misto di dispiacere e incredulità, ma lui era lì, vivo e vegeto, sorridente dietro al bancone. Si trattava di un caso di omonimia, mi disse. Tuttavia nel suo volto notai una luce strana: vent’anni prima era accaduta la stessa cosa a suo padre, anche in quel caso l’annuncio funebre di un omonimo aveva preoccupato parenti ed amici. Dopo appena un mese, però, suo padre era morto davvero. Non so come raccontare il mio sconcerto quando, di lì a poche settimane, scoprii che anche il mio amico era stato vittima dello stesso destino. La sua morte improvvisa aveva qualcosa d’incomprensibile e di misterioso. Davvero la parola destino assumerà un significato statistico, come scriveva Musil? Oppure ne siamo ancora artefici? Nessuno può rispondere a queste domande, ma tutti possiamo trasformare il cupo corridoio dell’attesa in una grande piazza luminosa e piena di vita. Per quanto non ci piaccia il nostro destino è lì, non altrove.