Amo la pittura. Ma avendo fatto studi di altro tipo (lo scientifico, dove la mia insegnante di storia dell’arte era incapace di trasferirci la sua passione; e poi scienze politiche, dove la parola “letteratura” veniva usata per indicare l’insieme degli studi teorici su un certo argomento tecnico – come “la teoria delle aspettative razionali” o “il tasso di cambio in un sistema monetario aperto” – e la parola “elegante” per lodare formule matematiche capaci di restituire la complessità dei meccanismi del sistema economico), avendo quindi una carenza di base sul piano degli strumenti necessari alla completa fruizione di un’opera d’arte (storia, filosofia, estetica, lingue classiche e via dicendo) ho cercato fin da giovane di sopperire diventando amico di persone che, all’epoca, studiavano storia dell’arte e che, successivamente, sono diventate storici dell’arte. A volte mi ci sono addirittura fidanzato, con qualcuna di loro.
Non è servito a granché. Tutte le interessanti, profonde spiegazioni che nel corso degli anni ho ricevuto da amici, amiche e fidanzate di fronte a opere esposte in mostre e musei di mezzo mondo non sono riuscite a trasfondermi lo spirito di uno storico dell’arte. Sono rimasto quello che ero fin dall’inizio, mi sa: uno che entra in rapporto con l’arte attraverso la porta delle vicende umane. Mi viene naturale cercare di cogliere quel poco di spirituale che riesco a intravedere tra le maglie della realtà sensibile, attraverso le traiettorie, le curve e le cadute presenti nella vita delle persone. Anche di quel particolare tipo di persone che sono i pittori.
Ogni volta che guardo un’opera d’arte, vedo anche la vita dell’autore. Non dico che l’una dipenda dall’altra, ma mi sembra che le due entità, opera e vita, siano fiumi paralleli che a volte si toccano, si mischiano, per poi tornare a separarsi. E osservando questi due fiumi mi viene subito la tentazione di immaginare una narrazione che ne dia conto.
Prendiamo Rembrandt. Perché proprio Rembrandt? Se dovessi immaginare un racconto sulla vita e sull’epoca di Rembrandt – un racconto che provasse a spiegare prima di tutto a me stesso i motivi che mi hanno portato a scrivere dopo la parola “Prendiamo”, tra tutti gli artisti possibili nello spazio e nel tempo, proprio il suo nome – partirei da uno dei momenti più difficili della sua vita. E non comincerei parlando di lui, bensì descrivendo brevemente, per chi non lo conosce o non lo ricorda, uno dei diversi ritratti da lui fatti al figlio Titus. È conservato al Louvre, sono andato a rivederlo non molto tempo fa. Si tratta di un dipinto del 1668, quindi Titus era già un uomo fatto, essendo nato ventisette anni prima, nel 1641. Eppure ha lo stesso sguardo fondo e malinconico che lo caratterizzava già nei ritratti eseguiti anni prima, quando era solo un ragazzo. Il suo volto, che non è bellissimo ma che suscita un immediato flusso affettivo in chiunque lo osservi, emerge di tre quarti dal tipico fondale scuro, catramoso, delle opere del tardo Rembrandt. Ha i capelli castani mossi e lunghi fino alle spalle, un cappello scuro e l’aria di qualcuno che abbia già sperimentato molti aspetti della vita, e non dei più agevoli.
Trasliamo quella stessa espressione a dieci anni prima, e cioè alla primavera del 1658. Il ragazzo Titus ha diciassette anni ed è stato incaricato dal padre, il molto famoso e molto chiacchierato pittore Rembrandt Harmenszoon van Rijn, un tempo il numero uno fra gli artisti di Amsterdam e adesso caduto un po’ in disgrazia, di andare a recuperare al banco dei pegni uno degli oggetti a cui il padre è più affezionato: un grande specchio con una preziosa cornice in ebano e il fondo argentato. Banco dei pegni, sì: negli ultimi mesi Rembrandt era stato costretto a disfarsi della maggior parte degli oggetti che aveva raccolto nel corso degli anni tra aste e botteghe antiquarie…
Ne volete sapere di più? Leggete, allora, Gli occhi di Rembrandt, di Simon Schama (uscito nel 1999, pubblicato in Italia da Mondadori nel 2000, ristampato negli Oscar Baobab Saggi nel 2017, con la traduzione di Paola Mazzarelli, Daniela Aragno e Luca Vanni): 970 pagine di storie e immagini che vi aiuteranno a fare qualche passo nel mistero di uno dei più grandi artisti europei di tutti i tempi. C’è un rischio, attenzione: dopo sarete sempre pronti a fare un biglietto e partire per qualsiasi luogo dove siano esposte le sue opere. Vedete un po’ voi.