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Chiamatemi pure Giuda

By 27 Ottobre 2021 25 Gennaio, 2022 No Comments

Chiamatemi pure Giuda

Luca Giommoni

Vivo in un piccolo borgo medievale, ho sette anni e sono un Giuda.
C’era Piero, con l’immancabile Luca al seguito. C’era Andrea, di cui non mi ricordo mai il cognome e c’era anche Laura, che in estate sembra sempre più bella. Mi hanno invitato a giocare con loro dietro alle piscine comunali che sono chiuse da tempo e dove l’erba cresce senza paura di essere tagliata, almeno così dice mio padre.
Era un pomeriggio di inizio luglio, senza compiti da fare e con le serrande alle finestre tutte abbassate.

 

«Se vuoi continuare a stare con noi, dovrai giocare come noi» ha detto Laura, stringendosi nelle spalle.

 

In quel momento è saltata fuori la tartaruga. La teneva Luca mentre Piero diceva che l’avevano presa dalla fontana al parco. Poi dalla tasca di Andrea è saltato fuori anche il petardo.

 

«Tieni» ha detto porgendomelo.

 

«Mettiglielo dove ti pare» mi ha tranquillizzato Laura, con Andrea che precisava: «O davanti o dietro. Se vuoi, è buffo anche in una delle zampe, ma è pericoloso, per te, dico».

 

Io sono fuggito via, lasciando cadere sia la tartaruga che il petardo. Loro si sono messi a ridere, e io mi sono sentito in colpa per aver lasciato cadere la tartaruga ma non per il petardo. Poi ho sentito il botto e li ho sentiti ridere ancora più forte. A casa, ho raccontato tutto alla mamma.

 

«Giuda!» mi dicono adesso quando li incontro, e ogni volta devo sperare che Luca non mi lanci anche un sasso. Non mi importa come mi chiamano, ho più paura di ricordarmi il suono di quel botto che di passare l’estate da solo. Ho iniziato a interessarmi ai nomi delle piante.

 

 

 

Vado alla scuola media Giuseppe Ungaretti, quest’anno ho gli esami e sono una Giuda.
Nell’ufficio della preside, oltre ai mie genitori, c’era anche l’insegnante di italiano. La preside, i miei genitori, l’insegnante, mi dicevano, con parole sempre più corte, che per il bene della comunità dovevo dichiarare che il mio compagno di banco, Omar, era un ragazzo pericoloso non solo per la classe ma anche per tutta la scuola, sia da un punto di vista igienico che comportamentale. Volevano che affermassi, come già avevano affermato tutti i miei compagni, che Omar era stato protagonista di condotte inopportune con le ragazze e aggressive con i ragazzi. Adoperarmi affinché una personalità così difettata venisse allontanata dalla scuola era una mia responsabilità di studentessa, dicevano. Però io di Omar sapevo soltanto che veniva dalla Romania, la cui capitale è Bucarest, che era figlio dei proprietari del circo che si era stabilito in paese, che cambiava scuola in continuazione, che era bravo in geografia e che parlava molte lingue. E questo ho detto. Precisando che, per quanto avevo visto io, quando aveva dato di matto era stato solo per difendersi dai continui scherzi dei compagni e che l’unico comportamento inopportuno che gli avevo visto fare con una ragazza era stato quello di prendermi la gomma per cancellare senza chiedere permesso. Questo avevo da dichiarare, nient’altro.

 

In macchina, mia madre si è girata verso di me e mi ha detto: «Ti darei un ceffone ma neanche questo ti meriti» concludendo con un «Vergogna!» senza neanche guardarmi negli occhi.

 

Omar ha lasciato la scuola da qualche settimana. Anche il circo se ne è andato poco dopo. Prima di partire Omar è venuto a salutarmi. Mi ha chiesto se anche io pensavo che avesse i pidocchi: glielo dicevano tutti ed era arrivato a credere di averceli veramente. Gli ho detto che non l’avevo mai visto grattarsi, quindi per me no, non ce li aveva. Lui mi ha sorriso e mi ha chiesto se sapessi come si diceva arcobaleno in rumeno.

 

«Curcubeu» mi ha detto.

 

 

 

Vengo dalla Nigeria, tra poco avrò ventisei anni ma ho già una moglie e due figli a Lagos e sono un Giuda.
Vivo in Italia da sette anni ma è solo da qualche settimana che per rinnovare il permesso di soggiorno serve un contratto di lavoro. Il mio permesso scadrà a breve. Fino a ieri lavoravo in un ristorante in centro, ero pagato poco ma regolarmente e, in due anni di piatti, padelle e forchette sbavate, io un contratto di lavoro non l’ho mai visto.

 

«È nell’ufficio del commercialista, devo solo trovare il tempo di passarlo a prendere» mi rispondeva sempre il mio capo quando gli chiedevo notizie del mio contratto. «Domani» mi prometteva quando provavo a fargli capire che, per me, quei dieci minuti che ci sarebbero voluti per arrivare nell’ufficio del commercialista significavano una vita intera.

 

Quando la polizia è arrivata al ristorante, ho pensato che fosse lì per me.

 

«Domani mi porta il contratto» ho risposto subito, preso dal panico, al poliziotto che si informava sul mio ruolo all’interno della cucina, pensando che la verità non potesse far male. Invece mi sbagliavo. Infatti il mio capo, con due suoi cugini, poi mi ha stretto in un angolo chiamandomi «Ingrato» e minacciandomi di buttarmi nel fiume se mi fossi fatto rivedere, liquidandomi l’ultimo mese di lavoro con un calcio sul sedere.

 

Adesso sto contando i “no” che mi separano dal diventare un irregolare, un clandestino, come si sente spesso dire. Per ora ne ho raccolti centosette. In un giorno, in media, ne raccolgo una dozzina, tra colloqui di lavoro e uffici vari. Domani è il mio compleanno, spero di essere più fortunato. Cinque “no” sarebbero sufficienti.

 

Vivo tra Antonietta d’Elia e Giuseppe Sutera in fondo alla seconda fila del quadrante a sinistra, sotto una lapide che, al posto del mio nome, ne riporta un altro scritto con la vernice: Giuda.
Non sono stati i miei aguzzini a cancellare il mio nome per scrivercene un altro sopra, ma un vicino di casa che mi salutava sempre quando lo incrociavo e con cui la domenica pomeriggio era solito fare il barbecue in giardino. Sono Giuda perché ho parlato male con le autorità di una persona che, a detta di tutto il paese, è un santo, un benefattore, un esempio di altruismo. Dicono che me la sono cercata, che a parlare male si attira solo il male, e il male per me sono stati tre proiettili nel petto. Sono Giuda perché ho messo in discussione la veridicità di un’affermazione usata molto spesso da queste parti: “Le cose sono così” quando le cose sono la paura, la violenza e il dolore che ne deriva.

 

Chi teneva a me diceva che, continuando nella mia impresa, avrei solo dimostrato di essere un egoista e di desiderare il male per le persone che mi erano vicine. Sono Giuda perché ho continuato a dire quello che c’era da dire. Perché quel silenzio faceva troppo male e andava tradito, e se in questo mondo perfino i Santi sono omertosi, allora chiamatemi pure Giuda.

Luca Giommoni

Nato a Cortona nel 1985, è insegnante di italiano per stranieri. Ha lavorato sia in scuole private che in associazioni no profit. Suoi racconti sono stati pubblicati su numerose riviste, tra cui Effe – Periodico di Altre Narratività, Pastrengo, L’Indiscreto e sul «Corriere Fiorentino». Il rosso e il blu – Una comune favola di migrazione (Effequ, 2020) è il suo primo romanzo.

Lettura consigliata
Sangue di Giuda
Graziano Gala
«L’altra sera s’hann arrubbato ’o televisore». Comincia così questa storia, con una sparizione, proprio mentre Pippo Baudo riempiva lo schermo. Le stanze, di colpo, «si sono messe tutte a sudare», e all’improvviso è scoppiato il silenzio. A raccontarlo a un commissario, nella sua lingua sgrammaticata, un misto sporco tra pugliese e campano, è Giuda o Giudariè, un vecchio che abita nel mezzo di un paese qualunque del meridione, Merulana. Oltre che con quel televisore, Giuda condivide la sua solitudine con Ammonio, un gatto dalla vescica ballerina, e con il fantasma del padre, che è ancora arrabbiato con lui e non perde occasione per terrorizzarlo. È stato proprio questo padre manesco e sregolato a cambiargli il nome di battesimo, compromettendone l’esistenza e imprimendogli a sangue questa nuova e infamante identità da delatore. Ora, a cinquant’anni di distanza, il furto del Mivar restituisce Giuda alla stessa strada della sua infanzia e ai suoi traffici eterni, agli insulti e alle compassioni, alla sua umanità violenta, derelitta e disperata. Da qui inizierà la sua discesa nel regno delle anime notturne e soltanto alla fine di questo lungo viaggio, cantato con amara ironia nell’epica popolare del dialetto, il protagonista potrà finalmente recuperare, a un prezzo altissimo, un po’ della sua dignità usurpata e, forse, il nome perduto.