Gentile Gilberto

Marco Amerighi

Gentile Gilberto,

 

spero mi perdonerà se entro così nella sua vita, ma contrariamente alle mie abitudini silenziose e intimidite dopo aver letto Sentiamoci qualche volta ho ceduto alla tentazione di scriverle. 

 

Per quale motivo? Non credo di saperglielo spiegare. Tuttavia ci proverò, magari partendo da un pensiero spicciolo che mi accompagna da giorni, e cioè che se lei si è preso la briga di scrivere un libro in forma di lettera, qualcuno le dovrebbe almeno una risposta. Ho deciso di essere io, quel qualcuno. E non perché mi reputi speciale o illuminato (le risposte dovrebbero edificare certezze e soffiare via i dubbi – come questo ridicolo scirocco che a metà febbraio ci illude di stare in estate, lei davanti all’adriatica Ancona, io alle “sudicie schiume del Tirreno” che cantava Carducci – mentre io sguazzo nell’indecisione costante), ma perché sento che lei, questo romanzo, lo ha scritto per me. 

 

So che non mi crederà, probabilmente adesso starà valutando se richiudere questi scarabocchi nella busta in cui le ha trovati, ma la prego di pazientare ancora un istante: ho un esercito di prove che mi danno ragione. 

 

Per prima cosa, anch’io scrivo. Guarda caso, lettere. Nella mia vita ne ho scritte centinaia. Non come lo strambo protagonista di quel libro di Saul Bellow che si limitava a sognarle senza spedirle mai, no, io le mie le ho affrancate tutte. Le mandavo a innamorate lontane, ad amici confusi, a madri indigeste. Ho una buona penna e un orecchio teso ai problemi degli altri, anche se dovrei dire ho avuto, visto che sono mesi che non scrivo più… ma sto divagando, torniamo alle prove. Due: come il suo narratore, che lei chiama A., neanch’io ho un lavoro concreto e rispettabile. Tre: come lui non sento nessun legame con la terra in cui risiedo, popolata da “scemi milanesi impellicciati” (mi scuserà se le rubo questa definizione fin troppo amorevole). Quattro: anche la mia generazione è rimasta ferita, “non per le guerre perse ma per quelle non fatte fuori ed esplose nell’anima a vent’anni”. 

 

Mi perdoni, le sto facendo perdere tempo, eh? Certe volte è come se una nebbia mi calasse sugli occhi. E dire che io detesto quando le persone girano attorno a una faccenda senza arrivare al dunque. Allora, ci arrivo, ecco la prova più evidente di quello che sto cercando di spiegarle: il suo A. (uomo di una lettera che scrive una lettera… non mi è sfuggito il gioco delizioso) un giorno riceve una cartolina da un amico con cui non parla più da dieci anni, e cosa fa? Decide di rispondergli. Mentre leggevo ho quasi avuto un infarto. Perché è esattamente quello che è successo a me. Mio padre (il cui nome inizia con la stessa iniziale del suo narratore!) è scappato di casa quando ero ragazzo. Non ho saputo nulla di lui per undici anni. Finché la scorsa estate, ho ricevuto una sua lettera. Non starò qui a riassumerle il contenuto. Inizia in un modo sbagliato, chiamandomi “caro” (ma lei sa che non è caro chi ci lascia senza una spiegazione) e finisce in un modo persino peggiore (chiedendo “perdono” e “la possibilità di recuperare il tempo perduto”). Se lo immagina? L’idiozia umana racchiusa in un foglio di carta… 

 

Ora, almeno, avrà capito perché ho deciso di scriverle. Perché rispondere a lei, per quanto imbarazzante, mi costa meno dolore che rispondere a lui. Con molta probabilità lei avrà già smesso di scorrere queste misere righe da un po’. Sdegnato, le avrà gettate nel cestino sotto la scrivania o in una pattumiera del porto di Ancona, dove la immagino a passeggiare in cerca di ispirazione, così come io strascico i piedi davanti agli scogli di Marina di Pisa allisciati dal vento. Avrebbe fatto bene, non si entra così nella vita degli altri. E poi mi sono dilungato troppo. I suoi affari, la sua famiglia, le sue idee romanzesche la reclamano. C’è una frase, tuttavia, del suo libro che non riesco a cavarmi dalla testa. Dice: “ora io credo che l’unica ragione di vita decente è la vita.” Dice una grande verità. Eppure, certe sere, nell’ora inquieta del tramonto, in cui è impossibile distinguere un cane da un lupo come mi diceva mio padre, a me sembra di non sapere più cos’è la vita. È passare le ore a scrivere a uno sconosciuto o è decidere cosa fare di quella lettera che mi guarda dalla scrivania? So a cosa sta pensando: perdo troppo tempo a farmi domande, e così finisce che non faccio mai nulla, come quel personaggio di Saul Bellow. Ma forse, gentile Gilberto, un giorno le cose andranno diversamente, vero?, magari, già domani, perché no, e allora questi miei discorsi suoneranno soltanto come i deliri di un pazzo solitario. Perdoni, se può, la mia intrusione. Avrei dovuto mandarle dei fiori. O, al massimo, un’email vuota con scritto solo grazie nell’oggetto.

 

Con stima,

un lettore 

Marco Amerighi

Vive a Milano, dove lavora come traduttore, editor e ghostwriter per varie case editrici. Il suo romanzo d’esordio, Le nostre ore contate (Mondadori, 2018), ha vinto il premio Bagutta Opera Prima ed è stato pubblicato in Francia. Randagi (Bollati Boringhieri, 2021) è il suo secondo romanzo

Lettura consigliata
Consumazioni al tavolo / Sentiamoci qualche volta
Gilberto Severino
All’apparenza un dialogo innocuo su vantaggi o complicazioni della vita in solitudine, in realtà, pagina dopo pagina, un impietoso scavo nel passato più intimo e privato dei due protagonisti, capace di rivelarne dolori, impotenze e speranze tradite. In Consumazioni al tavolo, il romanzo di esordio di Gilberto Severini, si torna all’estate di “Tunnel of Love” e “Bette Davis Eyes”. Alberto, Gianni, Paolo e Paola, amici di lunga data, ma ora dispersi in vite lontane, si ritrovano nelle Marche per una vacanza colta, tra mare, teatro sperimentale, colazioni al bar e musica dall’autoradio. Sono stati adolescenti e ragazzi negli stessi anni e negli stessi luoghi, e ora che sono vicino ai quaranta devono affrontare antiche intimità e nuove distanze, recriminazioni e dolori, a fatica sepolti nel nome dell’amicizia e della consuetudine. L’incontro con un estraneo, Roberto, un diciottenne con le astuzie della sua età e con le incertezze di una vita ancora giovane, condurrà a una resa dei conti dagli effetti imprevisti. In Sentiamoci qualche volta, seconda prova narrativa dell’autore marchigiano, A. riceve e scrive lettere ad Andrea, un amico della giovinezza che, superati abbondantemente i trent’anni, si è convinto di aver sprecato la vita per essersi sposato con Laura senza averla mai amata, ma soprattutto per aver represso i propri veri desideri.