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I nidi dei cinerini, ancora vuoti

By 17 Aprile 2020 19 Dicembre, 2020 No Comments

I nidi dei cinerini, ancora vuoti

Silvia Bottani

Sono scappata perché non potevo stare un’altra ora dentro casa con te. Sono uscita mentre facevi la doccia e la porta blindata si è richiusa facendo tremare i muri, ma tu non te ne sei accorta e lo so perché hai cominciato a chiamarmi solo un quarto d’ora dopo.

Sono passata accanto all’altalena dove, un mese fa, io e Giordana abbiamo passato un pomeriggio intero a discutere di politica, dividendoci una bottiglia di birra sempre più calda mentre le ore diventavano blu. Oggi avrei voluto fermarmi lì a dondolare, come facciamo sempre, ma ero troppo visibile. Perciò ho proseguito verso i campi, passando accanto alle villette in costruzione.

 

Prima di scappare ero in cucina e stavo bevendo un bicchiere di Coca. Quando ho chiuso lo sportello del frigo ho visto che non avevi voltato la pagina del calendario di Save the Children, e il bambino che mi sorrideva era ancora quello di febbraio, un bambino con i denti da latte fosforescenti e la testolina rotonda e coperta da una peluria crespa. Un sorriso al mese. Nel calendario va tutto bene, i bambini sono rugiada e quando li vedi pensi che ci sia speranza per tutti. Il tempo del calendario è un tempo ordinato, una cassettiera che si apre un giorno dopo l’altro. Invece il tempo vero è un pezzo di gomma che si accorcia e si distende, e mi sembra che non abbia regole. Ho pensato da quanti giorni eravamo chiuse in casa e mi è venuta una rabbia per cui sono dovuta scappare.

 

Mi stai telefonando e io sento la vibrazione del telefono in tasca che mi fa sobbalzare. Ogni vibrazione è la tua voce che mi chiama. Dove sei, ti stai chiedendo, e so che sei preoccupata, che stai sudando freddo, davanti alla finestra del soggiorno. Io però non rispondo. Se rispondo adesso crollo e non voglio perché non voglio tornare. 

 

Mi vengono in mente le farfalle che si librano sulle fiamme, quelle di Ocean Vuong, che è un poeta queer, in quel libro che mi ha prestato Giordana. Anche qui ci sono le farfalle, quest’anno mi sembra di vederne più del solito, ma non c’è la guerra. Tutti ripetono che siamo in guerra, ma non è così. Ci sono i merli che cambiano il loro canto, l’ho sentito chiaramente, ci ho fatto caso dopo che papà me lo ha detto l’ultima volta che abbiamo parlato su Skype. Ho fatto finta di essere annoiata mentre me lo raccontava perché mi imbarazza sentirlo parlare di cose che lo appassionano. Mi imbarazzano i suoi sentimenti, e anche i miei.

 

Comunque non avevo mai sentito i merli cambiare modo di cantare, prima, e non so se è perché non lo facevano o perché c’era troppo rumore. Oppure se ero io a non sentire. Conto otto nidi di cinerini in cima al filare di alberi. Forse per le uova è ancora presto. Una volta ho visto un colibrì ma non so se è un ricordo vero o se me lo sono immaginato. C’è anche quello, nel libro di Vuong. Ricordo di averlo visto in un parco, uno di quelli che non sono proprio degli zoo, dove vengono ricostruiti gli ecosistemi naturali. A me fanno tristezza, perché sono una bugia solo un po’ meno grossolana di uno zoo, ma comunque gli animali lo sanno, è evidente dal modo in cui ti guardano senza guardarti. Con gli uccelli è diverso perché sono sempre preoccupati da questioni loro, non sono come i mammiferi che si mettono in relazione con gli esseri umani. Mi piace questa volontà di non immischiarsi con noi, di essere animali senza possibilità di compromessi. 

 

Starai pensando che volevo punirti per qualche ragione, ma non è così. A volte mi accorgo che hai delle idee e ti perdi in pensieri che poi mi accenni, procedendo a tentoni, mentre verifichi se le tue intuizioni su di me sono giuste. Io ti guardo e da come pronunci le parole lasciando che passi molta aria tra l’una e l’altra, il modo in cui volti lo sguardo e ti dedichi a fare qualcosa di pratico e inutile, come asciugare una pentola, mi dice che stai cercando di capire qualcosa che mi riguarda. Pensi di non potermelo chiedere apertamente e ti affanni senza esserne consapevole. Sono una cavia, in quel momento, e tu sperimenti su di me il tuo ruolo di madre. Ecco, quel tuo modo mi dà sempre un senso di stanchezza e mi fa venire voglia di cambiare stanza, perché anche io so e non posso dire e tutta questa conoscenza che non trova le proprie parole a volte mi schiaccia, mi fa sentire un sasso sul fondo di un fiume e tu sei quella massa d’acqua che mi passa sopra.

 

Arriverò alla cascina e poi tornerò indietro. Anzi, fino alla tangenziale: voglio vederla vuota. Sei alla quarta chiamata e sai che non sto rispondendo apposta. Posso aspettare ancora un po’ e anche tu, e intanto cammino, sento i sassi che scricchiolano sotto le scarpe e l’odore del fango e dei fiori. È arrivata la primavera e anche questo, in un certo senso, mi fa arrabbiare. 

Poi a un certo punto lo vedo, in mezzo al sentiero, lo riconosco dai capelli lunghi. Si volta e non è sorpreso che io sia lì. Si gratta il naso con la mano destra, una mano larga e tozza infilata in una guanto giallo di quelli che si usano per le pulizie. Si gira in direzione della strada, sorregge una busta di plastica. Annuisce, poi si mette a cantare una canzone in un inglese che è solo suo, un pasticcio di vocali e consonanti che pronuncia con soddisfazione. Mentre canta segue la traiettoria di macchine che non passano da settimane. Non so se abbia un permesso speciale per uscire o se sia riuscito a scappare da casa come ho fatto io, e se i volontari lo stiano cercando. 

Lo chiamo per nome, ma non si gira. Provo di nuovo ma lui alza la voce e canta più forte, sventola una mano nella mia direzione per ammansirmi e dondola sulle gambe. Aspetto che finisca per chiamarlo ancora – Piero, andiamo a casa. Allora lui si volta e s’incammina a piccoli passi verso di me. Mi avvio anch’io per tornare indietro e dopo una decina di metri sento che si ferma. È lì in piedi che aspetta. Quando mi avvicino, apre la busta di plastica che tiene in mano ed estrae un bastoncino grigio che punta nella mia direzione. Lo afferro e lui ne pesca un altro, poi fruga nella tasca dei pantaloni e con un accendino ne brucia la punta, che dopo pochi istanti comincia a emettere scintille. Ripete il gesto anche con il suo, e adesso siamo uno di fronte all’altro e ci guardiamo e guardiamo la piccola cascata di lapilli che ci rovina sulle mani con un pizzicore di formiche e illumina la prossimità muta che stiamo condividendo. Stiamo celebrando un Capodanno che non si ripeterà mai più. Solo quando i bastoncini si spengono, mi accorgo che siamo stati troppo vicini e mi chiedo se ho respirato il suo fiato e se la sua saliva si sia poggiata su di me.

Prende i due bastoncini consumati e li rimette nella busta, poi fruga ed estrae un grosso uovo, sporco di escrementi o di terra, me lo allunga. L’uovo è pesante, bianco come di gesso, e mentre ne soppeso la consistenza, vedo che lui si avvia di nuovo verso la tangenziale. Quando lo chiamo, inizia a correre, un passettino dietro l’altro, sempre più veloce, un passo da bambino che scappa, concentrato e consapevole che presto verrà raggiunto da ciò che lo spaventa. Scavalca il guard rail, si piega passandosi le mani guantate sui pantaloni di velluto, si raddrizza; dopo aver guardato a destra e a sinistra, attraversa la carreggiata e si allontana fino a scomparire.

 

Ripongo l’uovo nella tasca del giaccone. In alto, un cinerino traccia un cerchio e poi plana verso il campo, atterrando accanto a un altro esemplare che si pulisce le piume. Sembrano ignorarsi, ma so che non è così. L’uno sa la verità dell’altro, che poi è anche la sua stessa verità. A me sembra che sia anche la mia e la tua, mamma.

Nella tasca vibra il telefono. Rispondo. 

Silvia Bottani

Critica e giornalista, scrive di arte contemporanea e di cultura. Ha collaborato o collabora con numerose riviste tra cui «Doppiozero», «Pagina99», «Arte», «Riga», «Rivista Segno». Nel resto del tempo lavora per agenzie di comunicazione, occupandosi di branded content. Il suo romanzo d'esordio, Il giorno mangia la notte, è stato pubblicato da SEM nel febbraio 2020.

Lettura consigliata
Brevemente risplendiamo sulla terra
Ocean Vuong
Little Dog, la voce di questo straordinario romanzo di esordio tradotto in tutto il mondo, ricostruisce in una lettera alla madre la storia della sua famiglia, segnata dalla guerra del Vietnam e dall’emigrazione negli Stati Uniti. Arrivati in America nel 1990, Little Dog e sua madre Rose si stabiliscono in Connecticut, dove lei si mantiene facendo manicure e pedicure. Ma la donna soffre di un disturbo da stress post-traumatico che si manifesta in violenti scoppi d’ira contro il figlio, alternati a gesti di tenerezza assoluta. Con loro abita la nonna Lan, che ha vissuto il dramma della guerra in prima persona: fuggita da un matrimonio combinato con un uomo molto più anziano, è costretta a vendersi ai soldati americani per mantenersi. Little Dog, crescendo, si fa interprete del dialogo impossibile tra le generazioni della sua famiglia tutta al femminile, unendo due donne che non parlano l’inglese e faticano a integrarsi nella cultura americana. Prendendosi cura degli altri, Little Dog impara a conoscere se stesso, dal difficile rapporto con i suoi coetanei che lo prendono di mira per la sua diversità, fino alla scoperta dell’amore. Accolto dalla critica come il nuovo grande romanzo americano, Brevemente risplendiamo sulla terra (nell’edizione italiana tradotto da Claudia Durastanti) è una straordinaria storia di formazione che, attraverso il legame d’amore tra un figlio e una madre, parla di identità, differenza, di come impariamo ad abitare i sentimenti più grandi.