Credo che ognuno di noi abbia un pensiero ossessivo. Certamente non una fissazione che abbia necessità di cura e attenzione ma qualcosa di simile ad un costante pensiero quando si osserva o si nota qualcosa.
Io ce l’ho per gli orologi fermi.
Ci sono lancette ferme ovunque: sulle facciate di alcuni palazzi comunali, in alcuni teatri, altre sono ferme nelle stazioni. Non sempre il loro fermarsi rappresenta qualcosa di straordinario – l’orologio della stazione di Bologna ci insegna quanto il tempo sia una ferita aperta – ma dietro quell’immobilità sento forte il mio pensiero ossessivo.
Cosa stava accadendo mentre il tempo si stava fermando? E perché non c’è stato nessuno che ha sistemato quei meccanismi?
Quando ero piccolo nella casa dei nonni materni rintoccava l’orologio a pendolo. Un tocco per l’una, due tocchi per due e così via. Suonava anche le mezze ore. Non appena ebbero abbastanza fiducia da farmi salire sulla scala diventai io l’addetto alla carica. Una chiave di metallo infilata in due buchetti che ricaricava la molla. Erano giri che non terminavano mai e che alla fine del percorso erano di una durezza incredibile per un bambino piccolo come ero io. Però tutto proseguiva: il tempo scorreva e nulla si fermava.
Credo sia per questo ricordo che non amo particolarmente gli orologi digitali: troppa semplicità dietro un sentimento, il tempo, che rappresenta invece una grandissima complessità. In quello schermo si notano solo due puntini che battono come un cuore nascosto, con una proiezione asettica di trattini. Le lancette invece hanno un loro movimento ciclico, continuo, che si ripete all’infinito. Ho una convinzione così profonda delle complicazioni del tempo che anche sull’orologio Apple che indosso ho impostato un quadrante analogico e non digitale. Ho il bisogno di guardare le lancette per comprendere il passare del tempo e la sua importanza.
Perché il tempo è importante, sì, fondamentale per il nostro percorso. Sembra infinito e non ne abbiamo mai a sufficienza per poter gestire le nostre passioni e le nostre idee. Lo rincorriamo, lo sprechiamo, ne facciamo frazioni per poter avere la sensazione che possa essere maggiore ma poi siamo sempre intenti a corrergli dietro per poter comporre il nostro vivere.
Il tempo scorre e noi sembriamo in ogni istante averne riconoscenza e noncuranza.
Poi ad un certo punto si ferma.
Sul perché si fermi potremmo dare razionalmente tante ragioni: una batteria scarica, una carica a molla che non viene alimentata, un meccanismo che si rompe, un ingranaggio che per un piccolo spostamento s’inceppa. Il risultato però è lo stesso: il tempo si ferma in quella scatola che misura i secondi mentre tutto il resto continua la sua corsa.
Qualcuno potrebbe rimetterlo in uso, quell’orologio, ridare ragione al suo operato ma molte volte, troppe volte, viene invece lasciato così: immobile e senza più l’amore per farne ripartire il ticchettio.
Una grande metafora di chi ci lascia e chi rimane, di chi ha misurato il tempo e di chi invece rimane per misurarlo dimenticando il tempo passato.
Ritrovo questo senso nelle biografie. Pagine dedicate a vite passate che in un modo o in un altro hanno scandito un tempo e che grazie ai loro biografi tornano a suonare.
C’era un orologio a pendolo nella casa di Victoria Benedictsson, lancette che scandivano la giornata lavorativa e la notte. C’erano parole lasciate sulle storie dei suoi numerosi romanzi e amori che non hanno mai avuto il coraggio di evadere dai propri ruoli.
Nella Svezia dell’Ottocento viveva una donna che ha percorso un’esistenza fatta di strappi ricuciti da un senso di colpa e da un’audacia che dibattevano nello stesso corpo. Un corpo che probabilmente, per l’epoca, avrebbe vissuto meglio nella pelle di un uomo.
Il suo ticchettio si ferma presto, a soli trentotto anni.
Cosa accadeva mentre si esauriva il suono della sua melodia? Perché in quel silenzio nessuno ha pensato a rimettere in moto le sue idee?
A volte il tempo fa paura, soprattutto quello di chi valica le epoche, di chi ha dato una vibrazione di eccezionale modernità a costumi e abitudini che non hanno ricevuto la volontà di evolvere.
Fortunatamente la paura è confinata a chi non osserva e rimane sordo davanti al silenzio del proprio orologio fermo. Gli altri osservano chi con estrema passione rimette in moto gli orologi.