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Incontro con Louhi, la strega del Nord

By 18 Maggio 2022 No Comments

Incontro con Louhi, la strega del Nord

Vera Gheno

La Finlandia. Terra delle migliaia di laghi, del verde, della Nokia, della Fiskars. Delle renne, del villaggio di Babbo Natale, lassù al Nord, dei campioni di salto con gli sci e di hockey sul ghiaccio. Delle infinite notti invernali e del sole di mezzanotte in estate. Terra di Jean Sibelius, di Paavo Nurmi, dei fratelli Kaurismäki; di Alvar Aalto e di Tapio Wirkkala, degli Impaled Nazarene e dei Bomfunk MC’s.

 

Per me, per tre anni, sinonimo di casa. 

 

Avevo dieci anni, era il 1985, quando mio padre accettò un incarico come visiting professor all’università di Turku, cosa che portò al trasferimento in Finlandia di tutta la famiglia. E fu così che, invece di passare alle medie, mi ritrovai “retrocessa” in quarta elementare, frequentando negli anni successivi la quinta e poi la sesta in una normale, bellissima e per me preziosa scuola statale finlandese. 

 

Ci sono mille cose di cui vorrei parlare: del freddo pungente di certe mattine invernali, quando andavo a scuola con venti gradi sottozero; delle due ore di educazione fisica trascorse a pattinare sul ghiaccio; della bellissima casetta, la mökki, della mia amica Anne e dei suoi genitori, su un’isoletta tutta sua, di proprietà, e dello strepitoso pane-burro-salame che mangiavamo per merenda, che forse era così buono perché nuotare mi faceva venire una fame incredibile; del mare basso del golfo di Botnia, talmente poco salato da gelare in inverno e diventare così un’immensa pista di sci da fondo; delle strade della città tanto pulite che in estate talvolta andavo in giro scalza; del giardino dell’osservatorio, vicino a casa, che esploravo incessantemente scoprendo nuovi anfratti tra le rocce, e della piscinetta nel parco giochi, nella quale trovavo sempre lombrichi agonizzanti, che di conseguenza cercavo di portare in salvo; e poi della grande paura quando ci fu l’incidente di Chernobyl, e di mia madre che mi scioglieva il Nesquik nell’acqua perché il latte no, non era il caso di berlo.

 

Tra tutti i ricordi, quelli belli e quelli spaventosi, ce n’è uno che spicca particolarmente: il nostro piccolo rituale familiare, forse del sabato (ma non ne sono sicura), di andare alla piscina e sauna pubblica. Oltre al piacere del caldo e dell’acqua, c’era per me anche la piccola gioia di potermi comprare un sacchetto di caramelle.
Sono cresciuta in una casa in cui non era uso lasciare in giro cose golose da spiluccare: non c’era il classico vassoio di dolciumi misti, che poi ho rivisto in tante abitazioni italiane (le caramelle Rossana, la fissazione di mia nonna Maria!), e non c’erano neanche patatine, salatini, noccioline, merendine eccetera. Tuttavia, una volta a settimana avevo il permesso di acquistare, a peso, un bel sacchettone di caramelle miste: gommose, liquirizie, caramelle dure, mou, dragées eccetera: alla piscina c’era un chioschetto che le vendeva sfuse, e io potevo crearmi la mia selezione personalizzata, nella quale, devo dire, prevalevano proprio le gommose, di ogni forma, dimensione e colore (che sono una delle mie fissazioni ancora adesso: rimango una divoratrice compulsiva di orsetti Haribo). Tutto questo avveniva dopo la sequenza sauna-piscina-sauna-piscina-sauna-piscina ad libitum, mentre i miei genitori si bevevano qualcosa (forse una birra?) al baretto della struttura. E quindi, con il corpo felicemente stanco dall’attività fisica precedente, passavo un bel po’ di tempo a selezionare le mie caramelle, per poi mangiarmele con calma in macchina, sulla via del ritorno.

 

Ma facciamo un passo indietro: in realtà, più che delle caramelle, volevo parlare della sauna. Di questa, vanno sapute alcune cose: intanto, che nelle strutture pubbliche finlandesi, la sauna era (forse è ancora) rigorosamente divisa per maschi e femmine (chissà adesso, in un momento di rideterminazione dei generi, come funziona); che si entra in sauna senza costume, portandosi un asciugamanino da appoggiare sulla panca; ma soprattutto, che la sauna è una cosa serissima, per i finlandesi: mica quelle robette da signorine a ottanta gradi scarsi, magari con gli oli aromatici, che si trovano spesso nelle spa. No: la sauna dei finlandesi è sopra i cento gradi, e sulle pietre si butta acqua, solo acqua, nessun intruglio profumato.

 

Dunque, la prima cosa alla quale mi abituai era la visione dei corpi femminili: dalla bimba di un anno alla vegliarda di cento, eravamo tutte completamente e serenamente nude, in una pletora di seni, natiche, ventri di ogni forma e dimensione: c’erano corpi levigati e rugosi, magrissimi e opulenti, c’erano pelli chiare e pelli più scure, pubi depilati oppure ricoperti di una fitta peluria; stavamo tutte insieme, con naturalezza, senza alcuna forma di pudore o timidezza ma anche senza esibizionismi: e questo, indubbiamente, ha avuto delle conseguenze benefiche rispetto alla tranquillità e rilassatezza con la quale vivo ancora oggi la mia nudità o la nudità reciproca, quando mi trovo a spogliarmi, per qualche motivo, con altre donne. 

 

Dunque, io e mamma ci levavamo i vestiti, ci facevamo la doccia, e poi entravamo nella sauna, sempre gremita di altre donne. Ci sedevamo sulle panche, per quanto possibile in alto, e poi stavamo lì, ritualmente in silenzio (non è che in Finlandia le persone siano particolarmente ciarliere; ma in sauna lo sono ancora meno, dato che è un luogo dove le persone vanno a rilassarsi, mica per chiacchierare). Immaginatevi, dunque, la penombra della sauna, e tutte lì in silenzio, a sudare, con qualcuna che ogni tanto attingeva un mestolo d’acqua dal secchio in dotazione e lo spargeva sulle pietre, mentre tutte le altre osservavano i suoi movimenti e si godevano lo sfrigolare del liquido a contatto con le pietre calde e la conseguente ondata di vapore bollente. 

 

Era tutto molto tranquillo, molto rilassante; la pelle arrossata sofferente, ma non troppo, per il caldo, il sudore e la sensazione che in qualche modo, assieme a quei liquidi, se ne andassero anche le preoccupazioni della settimana.

 

Poi, però, a una certa ora, con precisione quasi matematica, arrivava lei. Il terrore della sauna femminile. Una cariatide di età misurabile con il carbonio 14, anziana in maniera inverosimile, due mammelle raggrinzite e cadenti, magrissima, con il capello lungo e bianco: praticamente, una strega. Non a caso, con mia madre avevamo iniziato a chiamarla Louhi, che nella mitologia finlandese, raccontata nel poema epico del Kalevala, è la regina del Pohjola, del regno del Nord. In un bellissimo dipinto, intitolato “La difesa del Sampo”, di Akseli Gallen-Kallela, immenso pittore finlandese vissuto a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, Louhi è rappresentata come una vecchia grifagna con enormi ali da rapace. Era così, la nostra Louhi-della-sauna, tolte ovviamente le ali. 

 

Insomma, Louhi arrivava, con la sua pezzuolina che appoggiava con cura sulla panca, nell’angolo più in alto e più vicino alla stufa. Poi usciva per riempire il secchio di acqua fredda. Poi spalancava la porta per abbassare la temperatura della sauna e cambiare l’aria. Dopodiché, senza chiedere nulla a nessuna, richiudeva tutto, si sedeva e, continuando a non proferire verbo, iniziava a buttare l’acqua sulle pietre: un mestolo, due mestoli, tre mestoli. Grande sfrigolare di pietre bollenti: FSHHHHH. Ondata di vapore caldissimo. Le altre donne, noi comprese, stringevano i denti, incassavano la testa tra le spalle, cercando riparo dal bollore. Ma lei niente, continuava senza tregua: ancora acqua, ancora sfrigolio, ancora vapore. La temperatura della sauna iniziava a salire. Acqua, sfrigolio, vapore. Pausa. Acqua, sfrigolio, vapore. Senza nessuna pietà.

 

A quel punto, iniziava la resa. Una per una, alla chetichella, la coda tra le gambe, le donne iniziavano a uscire da quell’inferno di vapore bollente. Arrivava il nostro turno: ci arrendevamo anche noi, guardando incredule la vegliarda che invece imperterrita, a testa alta, senza fare un plissé, fissava in cagnesco la stufa incandescente, continuando a buttarci acqua. Era una sfida tra loro due, ormai: noialtre non esistevamo più.

 

E così, piano piano, la sauna si svuotava, finché dentro rimaneva solo lei, Louhi la Sanguinaria, la Highlander della calura. Da fuori, continuavamo a sentire i suoi FSHHH FSHHH privi di qualsiasi misericordia, finché non aveva svuotato completamente il secchio dell’acqua su quelle povere pietre, che forse chiedevano pietà pure loro, a un certo punto. E solo allora, solo dopo essersi goduta fino all’ultima voluta di vapore, dopo avere stremato tutte, compresa la stufa, ecco che la porta della sauna si spalancava e Louhi usciva, arrossata dal calore, ma trionfante, ghignando, facendo scivolare su di noi il suo sguardo di commiserazione, prima di procedere a farsi la doccia e a immergersi in piscina per le sue consuete settemila vasche. 

 

In quel lasso di tempo, mentre la strega era a nuotare, la sauna si gremiva nuovamente di donne abituate a temperature meno proibitive, o forse semplicemente prive di quella invisibile corazza di amianto che doveva ricoprire il corpo consumato dal tempo della nostra Louhi.

 

Sarà per tutto questo portato personale che mi sono goduta così tanto Musica rock da Vittula di Mikael Niemi.

Vera Gheno

Sociolinguista, traduttrice dall’ungherese e divulgatrice, ha collaborato per vent’anni con l’Accademia della Crusca e per quattro anni con la casa editrice Zanichelli. Ha insegnato come docente a contratto all’Università di Firenze per 18 anni; da settembre 2021 è ricercatrice di tipo A presso la stessa istituzione. La sua prima monografia è del 2016: Guida pratica all'italiano scritto (senza diventare grammarnazi); dopo vari altri volumi, nel 2021 pubblica Trovare le parole. Abbecedario per una comunicazione consapevole (con Federico Faloppa, Edizioni Gruppo Abele) e “Le ragioni del dubbio. L’arte di usare le parole (Einaudi). Nel 2023 è uscito per Rizzoli il suo libro Parole d'altro genere.

Lettura consigliata
Musica Rock da Vittula
Mikael Niemi
È un fiume gelato che in primavera resuscita e con una pressione lenta ma inesorabile manda in frantumi il pesante mantello di ghiaccio. È una forza che ti prende e ti schiaccia contro le pareti della stanza e non puoi reagire, devi ascoltare. È un turbine che ti investe e la tua vita non è più la stessa. È il rock. È il rock che ti fa saltare con un manico di scopa a tracolla e urlare nell’impugnatura di una corda davanti ai compagni di scuola esterrefatti se non hai chitarra e microfono. È il rock che ti fa sentire qualcuno quando per il mondo sei nessuno. Sono le gambe ondulanti di Elvis e il ritmo dei Beatles che negli anni ’60 salvano Matti e Niila, cresciuti nella cittadina di Pajala, persa tra paludi e foreste al confine tra Svezia e Finlandia, in un’appendice senza identità e senza storia, talmente a nord che non c’è nulla sulla cartina della scuola, talmente piccola che per comprare riviste erotiche devi andare nel paese vicino. A Vittula, il quartiere povero, neanche l’arrivo dell’asfalto e del benessere può cambiare le abitudini dei silenziosi taglialegna che, dopo un paio di bicchieri di acquavite trasformano un matrimonio in famiglia in una gara di spacconate e braccio di ferro, e ti giudicano sul metro della resistenza all’alcol e alla sauna. Ma la musica non è solo rottura, è il filo rosso che porta al passaggio dall’infanzia all’adolescenza, la progressiva scoperta di quella realtà un po’ cruda, fantastica e ironica, ma senza dubbio amata, in cui Niemi proietta, tra epos e realismo magico, la sua esotica regione natale. Il fantasma della nonna che bisogna evirare, una drammatica guerra ai topi, pestaggi e gare di sbronze, sciate e sfide a hockey, ma soprattutto le ragazze, questo mistero: tra episodi grotteschi ed esilaranti, religione e sogni “che si gonfiano come grosse mongolfiere colorate”, umorismo e poesia, c’è il riconoscimento delle proprie radici, l’accettazione di quella rete di passioni, di ricordi e di paure che unisce la gente della piccola comunità, la vera mappa sotterranea che resta a orientare la vita e a nutrire la nostalgia.