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La mia voce umana

By 20 Maggio 2021 No Comments

La mia voce umana

Niccolò Protti

Sono a casa da sola. Ho preso un giorno libero dall’ufficio, dalle fotocopiatrici, dagli uomini, dal tailleur e dalle scarpe col tacco.

 

In cucina c’è abbastanza silenzio per sentire il mio affanno. Il tavolo è troppo basso e questo impasto è faticoso, mi costringe a una curva innaturale della schiena. Mi fermo un attimo per riposare anche le braccia. Mi cade la manica destra, arricciata, del maglioncino che indosso, ma ho le mani incordate di farina, acqua e burro e compio gesti innaturali per rimetterla al proprio posto. Sento che devo grattarmi la fronte. Percepisco qualcosa sopra il sopracciglio destro, come un grumo rappreso che mi impedisce di corrucciarmi. È un pezzettino di pasta – lo vedo specchiandomi nel vetro del forno spento. Decido di lavarmi le mani, di detergerle dal burro che mi unge e dal resto della poltiglia appiccicosa. 

 

Mentre apro il rubinetto e l’acqua dura inizia a scendere, squilla il telefono: è un suono atroce, uno squittio acuto. Non oggi, non ora, per favore. Mi rendo conto di non aver disinserito la segreteria telefonica. Sento i tre squilli, poi la mia voce: «I’m happy again singing and dancing in the rain. I’m dancing and singing in the rain… Risponde il 276504. Mi spiace, ma non sono in casa. Se volete potete lasciare un messaggio dopo il bip. Grazie e ciao».

 

Però non sento niente, nessuna voce di rimando, nessun messaggio. 

 

Chissà chi era, chissà cosa voleva. Poi penso al mio messaggio, mentre il sapone profuma le mie mani di surrogato di cedro.

 

Ero felice quando lo registrai, e pioveva. Ero nuda, appena uscita dalla doccia. Sulla mia testa tenevo un turbante a contenere i miei capelli lunghi e puliti, mentre dalle gambe sgocciolavo acqua e buonumore liquido. Cantavo, anche. Lasciando le impronte sul pavimento scuro e freddo mi avvicinai all’apparecchio telefonico. Non so perché, ma decisi di cambiare il mio messaggio, troppo serioso fino a quel momento. Terminava così: «Vi chiamerò al mio ritorno». Ma non mi rispecchiava e lo registrai di nuovo. 

 

E ora invece? Che fare? Termino di impastare, accendo la luce del forno e vi metto a lievitare la mia creazione. Di qui al raddoppio di volume, alla temperatura giusta, ho il tempo di cambiare il mio apparecchio.

 

Scendo in strada, salgo in auto e mi dirigo verso un rivenditore di apparecchi telefonici della mia zona. Entro e chiedo un répondeur – “quella non voce disumana, quel ferro che parla, e per scherno gli hanno dato anche quel bel nome francese, répondeur, nella lingua della seduzione” – come ho visto nella reclame l’altra sera alla televisione. 

 

Torno a casa, facendo esattamente la strada inversa. Sembra sia tutto grigio, coi lampioni spenti. C’è solo un uomo vecchissimo per strada: corre pianissimo, con un ombrello enorme in mano e una giacca antivento celeste.

 

L’impasto è pronto. L’ho coperto bene e non si è formata nessuna crosta. Provo una certa invidia per questa pasta, morbida e flessuosa, plastica: tende a un giallo salubre – le uova del contadino. Lo sportello del forno mi guarda. Ho ancora la sensazione del grumo sulla fronte. Mi gratto, mi scortico, sanguino. Poi ceno. 

 

Siedo sul divano. La televisione mi guarda. Sono incantata, rivolta verso la luce intermittente del mio apparecchio telefonico. La chiamata di oggi pomeriggio è ancora lì, senza niente da dire. Mi alzo e vado verso il filo del telefono. Lo stacco. Vado in camera e recupero il répondeur. Lo tiro fuori dalla sua confezione rossa: l’apparecchio è di un bianco ancora immacolato, vergine di voci e di parole. Aspetta ancora di sentire i primi improperi, le sfuriate e i singhiozzi, gli schiocchi di labbra, il naso che cola e le maledizioni ai fazzoletti che non si trovano mai; e poi le cose che avrà lui da dire. O è una lei? Collego l’apparecchio alla corrente, poi al cavo telefonico. Lo schermo prende vita: è arancione. Compaiono delle scritte banali, non in francese. 

 

Stamani è di nuovo tutto grigio in cielo e sulle finestre di fronte. Indosso il tailleur e le scarpe col tacco. La mia camicia oggi è celeste, come la giacca a vento del signore di ieri. Prima di uscire, inserisco la segreteria del répondeur. Il commesso, ieri, mi ha detto che non c’è niente da fare: il messaggio è pre-registrato, la voce è standard per tutti. Sarà una cosa in meno a cui pensare. Esco e vado in ufficio.

 

Torno. Mi spoglio del cappotto. La luce del répondeur lampeggia. Mi avvicino all’apparecchio e premo il pulsante della segreteria: «RI-SPON-DE-IL-NU-ME-RO-27-65-04-SI-PRE-GA-DI-RI-CHIA-MA-RE-DO-PO-LE-18…». Poi nient’altro.

 

La mia voce era sparita, soppiantata da quel gracidio asettico. Ma lo sapevo.

Niccolò Protti

Diplomato cuoco, laureato in Letterature Comparate con una tesi su Agota Kristof. Si interessa di cucina come medium culturale. Scrive per «Lungarno» e «Nido Magazine». Per «Droga» cura la rubrica Mio nonno fa l’orto.

Lettura consigliata
Le voci
Claudio Magris
Si tratta della storia, narrata in prima persona, di un personaggio solitario, isolato, di un uomo che vive nel suo mondo fatto di voci di donne. Le donne in carne ed ossa sono “simulacri”, egli costruisce un universo ideale di donne ascoltando le loro voci registrate nelle segreterie telefoniche. Una sottile follia aleggia nel libro, la follia del protagonista che vive e si innamora delle sole voci, analizza il carattere e le emozioni di chi ha dettato quelle comunicazioni, e si sente tradito se il messaggio viene modificato. Vive ogni voce di donna come un amore ricambiato e tenero, ogni qualvolta compone il numero telefonico fino a quando non sarà costretto ad affrontare “le repondeur”, la minaccia al suo mondo ed alla sua logica esistenziale. Le voci son quanto di più sincero possa avere una persona, una voce esprime quello che si è.