Rivista La città dei lettori

Le cose scompaiono

Le cose scompaiono

Tamara Baris

Torno da scuola carica, solo lievemente abbacchiata perché ho fatto i salti mortali per essere qui oggi ed entro stasera avrò: cambiato cinque treni; collezionato l’ennesima delusione (già lo so); indossato due cappotti diversi nel giro di poche ore e trascinato un bagaglio pesante tra binari di diverse regioni, mangiato, però, anche dell’ottima panna. Sbuffo rumorosamente sotto la mascherina e mi guardo nel borsone: ci sono i libri che ho usato per la lezione. Mi rendo conto di averne portato con me, di nuovo, uno in particolare. L’ho letto, forse, più che altro, camminando tra i banchi dei ragazzi un po’ nascosti dalle mascherine, perché per me è un amuleto: non gli è piaciuto. Ma poco mi interessa. Mi basterà sapere di essere riuscita a colpire almeno uno o due di quei diciottenni. 

 

Sul treno c’è un signore che non si muove, ci guardiamo spaventate io e un’altra collega: è ubriaco, invece, capiamo dopo poco, ma cerchiamo di svegliarlo, altrimenti chissà per quanto tempo resterà su quel sedile. Si sveglia, ci ringrazia, scende. C’è una luce calda che mi accarezza, prenoto biglietti, incastro impegni, congelo sentimenti, cambio programmi. Ultimamente, sono brava a lasciare andare, eppure per una vita – quella vita che ho vissuto finora, almeno – ho avuto una frase scolpita in testa, come un mantra, come la preghiera fondamentale, come un segno particolare sulla carta d’identità e mi chiedo: ma sarò cambiata davvero così tanto?

 

«Menti! Sono le cose a scomparire, io per quelle biglie sarei morto, come avrei potuto abbandonarle? Le mie biglie…».

«Infatti è così, scompaiono. Tutto il segreto sta nel non distrarsi mai, mai abbassare la guardia… sapere sempre cosa si ha, dove lo si ha… e ciò che hai amato anche un solo mattino tenertelo stretto fino alla morte. Tenere, tenere, tenere…».

 

Non dover mai rimpiangere nulla. A volte, le biglie le scaravento più lontano che posso, ultimamente. Non le colleziono, non le conservo, non le custodisco. Io che sarei morta per quelle biglie. 

 

Sul treno fa caldo e io cerco solo una faccia da indossare sotto la mascherina, ma temo che stavolta non ci riuscirò. O, forse, stavolta non terrò nulla. Ma ho ancora qualche ora per disegnarmela.
Ripenso ai ragazzi: abbiamo parlato di Sud America, di Maradona, di miti, di icone, di sentimenti, di Luciano Re Cecconi, di Zadie Smith, Sandro Veronesi, Tiziano Terzani, Antonio Franchini, Ultimo, Alessandra Amoroso, Cristiano Ronaldo. È facile immaginare in questa lista quali siano le mie biglie, quali i loro giocattoli (biglie incluse, ma qualcuno credo sia solo una comparsata usa e getta nelle loro adolescenze). Ho camminato tra i banchi, facendo tutta la lezione in piedi, ho risposto a una di loro come rispondeva a noi, a lezione, il mio maestro, senza rendermene conto. Non lo vedo e sento da mesi. Quando invecchi sono il caso e l’impegno a decidere la possibilità di un incontro, com’è giusto che sia. Mi ritrovo però a scivolare sulle famose biglie perché senza volerlo, senza premeditarlo, ho indossato il piglio che pensavo non mi appartenesse più, convinta che non fosse mio, certa invece che sia tornato a trovarmi proprio perché mio. Le mie biglie sono le mie letture: resisteranno a tutto: alla vita con o senza maestri, modelli, esempi; alla scelta di essere più o meno accademici, più o meno creativi; alle cadute e ai voli e – cambiando totalmente sfera d’azione – al resto della vita che gravita intorno al nostro impegno: all’amore – per esempio – quella cosa assai complicata che, per i più, ha sempre occupato uno spazio marginale nella mia vita e che io so, invece, che ha sempre avuto un peso importante. Mi arrovello in mille pensieri mentre il treno corre, o almeno ci prova, poi scenderò e consultando frettolosamente il tabellone con gli orari, andrò verso i primi binari: che traversata, a volte, questa stazione.

 

Io, quando mia madre mi spiegò che «mostro», per gli antichi, voleva dire prodigio, e perfino miracolo, mi sentii per un attimo placato, come vivessi in un mondo migliore.

 

E, quindi, niente: scendo. Fa un freddo terribile: uno di quelli che ti taglia la faccia: il borsone pesa e non ho capito perché mi sto complicando ancora di più la vita tenendo in mano anche questo libro. O, forse, lo so: lo porto in giro come un accessorio, lo dono al mondo come un amuleto, come l’amuleto che è sempre stato per me, questo libro è la mia biglia più preziosa, ma messa da parte la mia solita gelosia (rivolta ai miei libri), lo sfoggio, abbinato all’outfit di oggi (non proprio riuscitissimo, penso): è il valore aggiunto, spero che incuriosisca qualcuno, che uno dei pendolari meno distratti che ho incontrato vada a comprarlo, che il controllore sbirci il titolo quando lo poggerò davanti a me e mi controllerà il biglietto, il green pass e, insomma, quello che c’è da controllare: 

 

Sì, ha letto bene: Michele Mari. 

 

Il titolo è Tu, sanguinosa infanzia: lo porto sempre con me quando temo di non essere all’altezza di qualcosa o ho qualcosa di importante da fare, di quasi qualsiasi tipo. Ci sono nel testo alcune coincidenze che mi hanno reso l’autore così vicino, per certi versi, la prima volta che l’ho letto. È un libro di rara profondità e bellezza. Un po’ buio, se vogliamo certo, ma con dei preziosi momenti di luce (non sto qui a dirle nulla sul demone della letterarietà, che non è tutto, ma il 95%). Oggi sono una persona diversa, molto: lancio le biglie, non trattengo neanche la persona che amo: se non m’ama, c’è poco da tenere (anche se è l’unica che avrei amato davvero e forse la amo comunque).
O, almeno credo di essere una persona diversa. Me la racconto così. Ma questo libro non lo lascerò scomparire mai: le biglie e il ricottaro, su tutti. Memore di quell’appunto che presi anch’io alle elementari sul mio SussiDiario, sentendo il maestro che ci parlava di Enrico VIII.

 

Io avevo un nonno che un giorno mi raccontò la storia di Enrico VIII che ammazzava tutte le sue mogli. Io capii «di un ricottaro», e per molti anni, ogni volta che mangiavo della ricotta, aspettavo di riconoscere i sintomi dell’avvelenamento.

Tamara Baris

Tamara Baris collabora con Treccani Libri ed è editor freelance. Scrive articoli per il portale Treccani.it («Atlante»; «Lingua italiana») e per «La città dei lettori». Ha frequentato il Corso di Dottorato in Literary and Historical Sciences in the Digital Age, presso l’Università degli Studi di Cassino (si è occupata di scritture private). Ha partecipato, ormai tanti anni fa, a Scritture Giovani Cantiere del Festivaletteratura e ha collaborato col progetto collettivo di storytelling Soultrotters. Ha lavorato in libreria e a progetti di comunicazione museale, occupandosi di semplificazione linguistica e attività di ricerca (Museo Facile; Attimi sospesi).

Lettura consigliata
Tu, sanguinosa infanzia
Michele Mari
E se da qualche parte nel tempo fosse custodito tutto ciò che abbiamo amato da bambini? Il passato raccontato da Michele Mari è quello mitico e irrecuperabile dell’infanzia, eroso negli anni da una diaspora di oggetti e sentimenti il cui ricordo continua a sanguinare. Ma in questi racconti non c’è mai il rimpianto di una perduta età dell’oro, perché la violenza immaginifica dell’autore opera un recupero altissimo di emozioni infantili legate a un universo in cui le sole figure amiche sono quelle dei propri personali mostri e di pochi, semplici ma «fatidici» giocattoli. «Ciò che hai amato anche un solo mattino, tenertelo stretto fino alla morte» diventa un imperativo totalizzante, e così un album di Cocco Bill può avere più valore dell’Iliade, mentre la gelosia per una compagna di classe continua a suscitare struggimenti e antagonismi senza fine. Ogni pagina spalanca abissi di malinconia dove fanno irruzione visioni fantastiche e terrificanti, in cui riecheggiano nitide le voci degli autori più amati – Stevenson, London, Poe, Melville. Così i giardinetti che accolgono gli svaghi pomeridiani dei bambini diventano lande inospitali, dove s’aggirano tremende creature mitologiche come le Antiche Madri; così un puzzle segna l’iniziazione a un’ascesi quasi monastica, così le copertine di Urania o le canzoni degli alpini diventano la palestra di ossessive elucubrazioni mentali, e tutto è tanto più feticisticamente inventariato quanto più la vita sembra cosa riservata ad altri. Una narrazione di trasalimenti e precoci nevrosi, condotta con commozione ma anche con feroce umorismo dalla voce inconfondibile di Michele Mari. Il ritorno di un libro uscito da Mondadori nel 1997, e già considerato da molti un piccolo, imprescindibile classico.