Rivista La città dei lettori

Primi amori e ultimi miti

By 31 Luglio 2020 19 Dicembre, 2020 No Comments

Primi amori e ultimi miti

Ilaria Gaspari

Una bella domenica di luglio, camminavo con il mio cane, Emilio, sotto l’ombra dei platani. Faceva molto caldo, cosa che mi indispone perché per qualche ragione mi fa venire l’ansia. Anche Emilio, che al guinzaglio trotterellava meno pimpante del solito, era un po’ maldisposto: si era fatto male a una zampa il giorno prima, aveva un’unghia rotta che lo infastidiva. Per tutte queste ragioni avevo deciso di portarlo a fare una passeggiata brevissima, giusto due passi per sgranchirci rispettivamente gambe e zampe. E tutto sommato stavamo bene, nonostante l’afa e tutto quanto, nell’ombra verde, chiusi in un silenzio malmostoso come due vecchi amici che qualche volta non hanno bisogno di parlare ma elidono i malumori nel silenzio. Quand’ecco che passa un signore vecchiotto, con il sigaro in bocca e un’aria molto gentile, quasi sollecita. Dovete sapere che da quando c’è Emilio, per strada mi ritrovo continuamente a chiacchierare con gli sconosciuti; succedeva persino durante il lockdown. 

 

Questo signore dall’aria gentile mi si avvicina e mi fa le domande che mi fanno tutti, quando vado in giro con Emilio. È un cucciolo? No, è solo molto basso. Ma di che razza è? Questo lo vogliono sapere sempre, perché in effetti, almeno nelle strade di Roma in cui cammino con Emilio, i cani sono quasi solo cani di razza. C’è il barboncino bianco e il barbone dai riccioli scuri, il lagotto, il bassotto e il bassetthound, il border collie e il pastore australiano, un certo numero di boxer e anche qualche cocker. I dalmata, dicono, non vanno più di moda. Ci sono parecchi chihuahua e un’infinità di jack russell, che abbaiano con molto entusiasmo. Emilio è uno dei pochi che una razza di appartenenza non ce l’ha, o forse le ha un po’ tutte, chi lo sa? A volte rispondo solo, con un bel sorriso: è di razza bastarda. Altre volte mi invento un nome che lascia stupefatto l’interlocutore – bassottone inerme della Cornovaglia, cose così; solo che poi devo scappare di corsa perché mi viene da ridere. Ma lo faccio solo per giocare un poco con i pregiudizi di chi mi chiede la razza del mio cane solo per sapere se le sue zampotte corte siano da considerarsi un difetto o una pregiata peculiarità, certificata sul pedigree in seguito alla selezione di sapienti allevatori. Con le persone gentili come quel signore col sigaro, però, non me la sento di fare la spiritosa, e così dico semplicemente che non so nulla dei suoi avi, che forse c’era di mezzo qualche cane molto pigro e qualche altro molto biondo, ma che più di così non so. L’ho preso al canile, dico, per cui non so proprio niente del suo passato. Di solito a questo punto le persone iniziano a farmi un sacco di complimenti per la nobiltà d’animo di cui avrei dato prova adottando un cane del canile: mi trattano come se fossi una specie di santa, come se il fatto di aver preso un cane che altrimenti sarebbe stato destinato, potenzialmente, a una vita in gabbia, fosse un atto di straordinario eroismo. Inutilmente protesto che in realtà non ho fatto niente di che, e che non ho salvato io il cane più di quanto il cane salvi ogni giorno me, insegnandomi cosa vuol dire amare qualcuno senza la mediazione delle parole ma solo quella della cura, schiudendomi a ogni passeggiata la sorpresa di provare a guardare il mondo da un’angolatura che fino a qualche mese fa ignoravo, costringendomi a camminare, a schivare guinzagli e pali della luce, a fermarmi se sul marciapiede cresce un ciuffo d’erbaccia da annusare.

 

Insomma, quel giorno il signore col sigaro non rispose come mi aspettavo, non mi coprì di complimenti per la mia pretesa buona azione, non mi fece cadere nell’imbarazzo di sentirmi di usurpare un’immeritata reputazione di buona samaritana: niente di tutto questo. Si limitò a squadrare me e il cane con un’occhiata molto seria, direi quasi clinica, come se ci stesse prendendo le misure, e ad ammonirmi così: Stai attenta, però! I cani non dimenticano mai la loro prima vita, il primo padrone. È a loro che rimangono fedeli.

 

Ho sorriso, perché che potevo fare?, e poi mi sono resa conto che portavo la mascherina, quindi era stato un sorriso perfettamente inutile, sprecato. Ho continuato a camminare, e intanto pensavo alle parole di quel vecchio signore. Non riuscivo a togliermele dalla testa, perché senza saperlo – cosa poteva mai sapere di me quel vecchietto sconosciuto, con il suo sigaro e le sue sentenze? – lui aveva toccato un nervo scoperto, un punto in cui sento sempre un dolore. Non ho smesso di pensare alle sue parole nemmeno la notte, mentre dormivo con un braccio fuori dal letto per accarezzare la testa di Emilio che ogni tanto piagnucolava per il dolore alla zampa, ma se lo accarezzavo si calmava, e l’altro braccio intorno al mio fidanzato, che ho conosciuto in verità non tanti anni fa. Pensavo a quanto è stato doloroso conoscerci che già eravamo grandi, lui più di me; pensavo all’amarezza di non poter più, ormai, per forza di cose, essere il suo primo amore. È vero che, come sentii dire una volta da una vedova ricchissima, molto cinica e molto simpatica, l’importante è essere ultimi amori, non primi; però è vero anche che, come diceva quel vecchietto, non è così facile accettare che chi amiamo abbia già amato, prima di noi, e resistere alla tentazione di misurarci con le molte vite passate che non possiamo conoscere più di quanto io non possa, scrutando nel fondo degli occhi del mio cane, indovinare qualche ombra, qualche chiaroscuro che mi restituisca un frammento della sua prima casa, del primo padrone a cui a quanto pare sarebbe ancora fedele, anche ora che è la mia mano che gli accarezza la testa se piagnucola nel sonno, in piena notte.

 

È strano, perché questo è uno di quei limiti invalicabili di tutti gli amori – non c’è amore abbastanza precoce da non temerne un altro già passato. E allora cerchiamo confronti e conforti, cerchiamo pegni e prove che ci garantiscano che siamo, a modo nostro, primi e incontrastati; ma finché non ci liberiamo dal pensiero degli amori passati sarà come se un piccolo esercito di fantasmi si fosse accampato a infestare il nostro amore, la nostra casa, il nostro letto. Lei era più bella, per lui, nella luce della mattina presto?, ci chiediamo; e i nostri difetti ci appaiono enormi, e proviamo vergogna, come sempre quando con i pensieri sfioriamo qualcosa che non si potrebbe dire, qualcosa che nemmeno una bugia saprebbe davvero coprire, o cancellare. Ci riscuotiamo da questi pensieri con la goffaggine che avremmo se avessimo rotto un soprammobile di porcellana e l’avessimo nascosto, in mille pezzi, in un cassetto… che prontamente qualcuno aprirebbe, lasciandoci lì piantati in piedi, con le guance in fiamme per l’imbarazzo e qualche farfugliamento confuso che non vorrebbe dire niente. Che è esattamente quel che succede a Rebecca, la protagonista della più indimenticabile, la più cupa, la più intrigante storia sul potere assillante e invisibile di un amore passato, che mai sia stata scritta: Rebecca la prima moglie di Daphne Du Maurier, romanzo d’amore e di fantasmi francamente terrificante (Alfred Hitchcock ne trasse un film che è più famoso del libro, ma il libro merita eccome) e bellissimo, per il suo potere metaforico magnetico, quasi onirico, che stormisce fra gli alberi della tenuta di Manderley come un vento costante, soffiando ovunque una presenza che è un’assenza… e che, alla fine, ribalta del tutto l’ossessione.

 

Perché – ci stavo cascando anch’io, dopo le parole di quel signore – in realtà è un’illusione ottica, quella che ci fa vedere come ombre minacciose le proiezioni di amori passati, di vite passate. Perché sì, è vero che l’amore è una foresta piena di punti ciechi, di dolori incomprensibili, di piccoli baratri che si spalancano davanti ai nostri passi; ma essere innamorati vuol dire anche sentirsi abbastanza incoscienti da infischiarsene, delle ombre e dei fantasmi, e godersi il brivido di sapere che sì, prima o poi ci faremo spezzare il cuore di nuovo, ma intanto, nella notte, ci possiamo sempre abbracciare.

Ilaria Gaspari

Ha studiato filosofia alla Scuola Normale Superiore di Pisa e si è addottorata all'università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito per Voland il suo primo romanzo, Etica dell'acquario, e nel 2018 ha pubblicato per Sonzogno Ragioni e sentimenti, l’amore preso con filosofia. Per Einaudi ha pubblicato Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (2019), già tradotto in diverse lingue, e Vita segreta delle emozioni (2021), entrambi tradotti in diverse lingue, e Cenerentole e sorellastre. Una botanica della bellezza (2022). Per Perrone, è uscita nel 2022 una guida letteraria, A Berlino - con Ingeborg Bachmann nella città divisa. Collabora con vari giornali e insegna scrittura. Vive tra Roma e Parigi.

Lettura consigliata
Rebecca la prima moglie
Daphne du Maurier
Il romanzo più famoso di Daphne du Maurier, considerato un classico della letteratura gotica e di quella romantica. Una giovane donna s’innamora del ricco e affascinante Maxim de Winter, rimasto vedovo di recente. Arrivati a Manderley, la splendida tenuta dei de Winter, la ragazza si accorge che Rebecca, la prima moglie, è più viva che mai nella memoria di tutti coloro che l’hanno conosciuta. E che la sua presenza si allunga come un’ombra cupa e inquietante sul suo matrimonio, sulla sua identità, sulla magnifica dimora. Un romanzo grandioso sulla gelosia, la memoria, il passato e il presente, inesorabilmente legati tra loro.