Non saprei situare, riguardandomi indietro ora, la prima volta che me ne sono resa conto. Forse non c’è stata una vera prima volta – forse, accorgermene è stato solo un modo per trattenere una quantità di percezioni minutissime, minuscoli slittamenti del sentire che inconsapevolmente avevo iniziato a collezionare molto prima di saper dare un nome alle cose, quando le parole erano suoni indistinti e non ragionavo che per sensazioni.
In quel tempo remoto, avvolta nel soffice intorpidimento della prima infanzia come un uccelletto in un nido, devo aver respirato nel profumo delle guance che si chinavano sulle mie mani piccole il sentore, quasi denso all’olfatto, della crema che preservava con pervicacia quelle guance dai segni dell’età, secondo quanto avrei appreso diversi anni dopo dalla voce della mia nonna che rideva, leggera e sorniona, chiacchierando con una delle sue tante amiche dalle vite per me favolose, cariche di anni, di primi e secondi mariti, di città attraversate e di storie mirabolanti che risalivano a un periodo inimmaginabile noto come “tempo di guerra”. In effetti le rughe che aveva erano rare e ben disegnate, e mi erano care come la sensazione della sua pelle sempre fresca, arrossata leggermente sugli zigomi, forse grazie proprio a quella crema. Ma era il profumo che sopra ogni altra cosa mi tranquillizzava, mi faceva sentire protetta come nel nido immaginario anche molto dopo che avevo iniziato ad avere le parole per dire le cose, e le curiosità di scoprirle, e l’urgenza di tessere insieme i pensieri e di ascoltare le chiacchiere dei grandi per provare a indovinare cosa potesse essere la vita, che per noi bambine sembrava sempre qualcosa di vietato, un regno incantevole schermato da un cancello altissimo.
Il profumo della crema, bianco, pastoso, lo saprei riconoscere se dovessi annusare mille barattoli anonimi; lo ritrovo, a volte, di sfuggita, addosso a qualche signora che mi passa accanto sul treno. Due o tre anni fa ho comprato un flacone di quella crema in profumeria, sono tornata a casa e me ne sono spalmata uno strato sottile sulle guance, sotto il mento, sul collo, ma sono rimasta delusa. Su di me, non mi pareva profumasse così di buono; ho conservato la bottiglietta rosa nel cassetto del bagno e ogni tanto la apro per annusarla, solo un attimo, come per paura che l’aria possa disperdere l’essenza del ricordo. E invece la ritrovo, di tanto in tanto, in percezioni inaspettate.
Una volta mi è successo in un albergo, era un giorno di inizio estate: c’era un grande comò di legno lucido, e sapeva di cera d’api, quella che d’estate strofinavamo sui gradini, e poi bisognava fare attenzione a non scivolare. Il profumo non saprei descriverlo, dovrei evocare la dolcezza quasi cava in cui ti avvolge quando lo annusi. Ne ho comprato una confezione; ma non ho mobili di vero legno. Tanti altri odori mi fanno un effetto simile – lacca, rossetto, smalto, lavanda; un certo detergente per pavimenti, che talvolta incontro in case d’altri. Ma vale anche per anche lo zucchero su una torta di mele, per parole che ho ritrovato in libri che evidentemente, in momenti diversi, abbiamo amato. Per i vestiti che sanno di sapone, e mi ricordano la mia nonna che metteva una saponetta in ogni cassetto; anche questo ho iniziato a farlo pure io, non mi pare che funzioni – forse sbaglio saponette. Vale per le volte che vedo una foto della regina Elisabetta con i suoi cagnolini e mi sorprendo di quanto sia vero che la mia nonna era tale e quale, solo senza cani. Vale per tutte le minime agnizioni che rivelano che la vita delle donne è fatta di una quantità incalcolabile di minuscole premure che passano per gli oggetti. Certo, anche quella degli uomini: ma per così tanto tempo è stata affidata alle donne la cura delle cose, delle case, del cibo, dell’abbigliamento, della resistenza agli strappi e agli scossoni dell’usura, da modellarsi in un mare di gesti diversi ma riconoscibili.
Me ne rendo conto pensando alle faccende che non so svolgere come si dovrebbe, e che forse non sono nemmeno più tanto necessarie, oggi che possiamo permetterci il lusso di essere pelandrone, e amministrare l’eventuale desiderio di curare, preservare, rammendare, con una libertà che le nonne non avevano. Me ne rendo conto, in realtà, grazie all’incanto di un libro, storia di tre generazioni di donne e dei loro oggetti, delle fotografie che le ritraggono, delle rigidità e delle ritrosie, dei quaderni pieni di parole, di piccole forme di generosità e abiezione, di desideri, rancori e paure protettive, di grazie incomprese, di corpi che sanno farsi selvatici e poi liberarsi di ogni istinto bestiale. È un libro che intreccia destini con un occhio precisissimo per i dettagli, guidato dalla saggezza dell’inevitabile. È l’esordio di Elisabetta Mongardi per Hacca, Ogni singola assenza: con schiettezza soavemente crudele mostra queste donne rimaste a custodire le loro sopravvivenze in uno spazio di condotte volatili, universali, riconoscibili anche da chi non le ha conosciute: ognuno ritrova quelle che hanno disegnato i confini del suo mondo. Un disegno si rivela quando è compiuto: qualche volta è il profilo di un’eredità segreta.