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Sul gradino della memoria

By 6 Giugno 2020 19 Dicembre, 2020 No Comments

Sul gradino della memoria

Luca Starita

Autobiografia come romanzo dell’orrore.

C’è quella strategia della mente, per cui chi vive un evento traumatico lo rimuove dalla memoria e lo affida ad una qualche divinità esterna che lo conserva, lo modifica nel tempo e lo restituisce al mittente sotto la forma di un’immagine distorta.

 

Con i margini di un bambino, con i contorni di un’infanzia, mi affido ai miei genitori e mi descrivo in relazione ad essi. Esisto in quanto “uccio” ed “etto”, sussurrati con i toni differenziati delle voci di mio padre e di mia madre. Quello che ne viene da questo richiamo dei ricordi non è la vera storia di qualcuno, ma la finta storia di nessuno con un minimo di realtà, per cui, alla domanda che si porrà chi leggerà questo scritto “ma sarà successo realmente?”, la risposta è “non lo so nemmeno io”.

 

Il feticcio – una coperta di Linus o uno zoccolo/frigorifero dell’Algida di Michele – è una ringhiera. L’ultima mia casa napoletana aveva una scala: era fatta di rettangoli verticali in ferro nero e corrimano in legno chiaro. I piani erano due, al piano terra cucina e grande soggiorno da cui si accedeva al secondo cortile e il primo piano con tre camere e due bagni. La scala era ciò che adoravo di più: sugli ultimi gradini prima della camera da letto delle sorelle, un lucernario si presentava nella sua luminosità. La bellezza di quella scala era completata dai gradini in marmo resina sul nero che ospitavano il mio sedere ogni volta che volevo origliare quello che succedeva al piano di sotto.

 

Mia madre è sempre stata un po’ instabile, possedeva la capacità di provare con un’intensità disumana qualsiasi tipo di emozione: la felicità si tramutava in entusiasmo e in sorrisi dispensati in ugual modo a figli, a parenti o a vicini di casa, la tristezza in disperazione incontenibile e la rabbia in furia incontrollabile. Oggi non è più così, vive un po’ più anestetizzata perché le emozioni vanno controllate – io la preferivo nell’esplosione della sua intensità, ma non glielo dirò. E quella ringhiera attraeva su di sé la mia più profonda apprensione: i vari episodi di litigio tra i miei genitori finivano, spesso e volentieri, con il pianto esplosivo di mia madre che, correndo per le scale e reggendosi alla ringhiera, si rifugiava in camera sua diffondendo un alone di incomprensione che attecchiva alle superfici delle nostre immature personalità. Ebbene, per ogni corsa materna improvvisa, la preoccupazione che riservavo a quella ringhiera mi paralizzava. Per ogni punto stretto dalla mano di mia madre che con determinazione fuggiva nella sua camera da letto e per il conseguente traballamento della ringhiera, io riuscivo solo a focalizzarmi sulla speranza di ritrovare quell’oggetto così amato – dopo la furia di mia madre – ancora integro. 

 

Mio padre invece è impazzito. Per lui la famiglia era tutto. Il coinvolgimento dei figli in qualsiasi tipo di attività era per lui fondamentale, così come oggi – per quanto poi il limite tra coinvolgimento e sfruttamento sia molto labile. In molti casi, però, mio padre sapeva essere molto rigido: niente parolacce, niente orecchini o tatuaggi – ma a quei tempi andavo in prima media quindi non ero ancora attratto dall’idea di perforarmi la pelle o colorarmela – e soprattutto alle venti e trenta scattava l’ora del letto, senza se senza ma. La ringhiera, in questo caso, quindi, rappresentava per me l’oggetto di protezione: fingendo di andare a letto, mi accadeva – non così spesso, in realtà, visto che amavo la mia solitudine e il dopo cena dedicato alle mie letture – di mettermi seduto con la schiena e le gambe appoggiate su quella parte di scalino generalmente destinata al piede e di ascoltare solo l’audio dei programmi che mio padre usava guardare. Dietro quelle sbarre di ferro nero nascondevo la mia persona da un’autorità che, in sere imprecisate, mi stava troppo stretta. Fu così, tra l’altro, che scoprii l’assenza di Babbo Natale. All’alba del giorno di Natale, svegliato dal rumore della porta dei miei genitori, nascondendomi nella mia solita postazione sui gradini, li vidi posizionare i regali sotto l’albero e notai mio padre mangiare due dei sette biscotti lasciati appositamente per il rosso grassone. Confuso, tornai a letto e mi ripromisi di farmi gli affari miei, deciso a salvaguardare almeno l’esistenza della befana dalla mia inopportuna curiosità.

 

C’è una certa selettività nell’accesso ai ricordi, le emozioni avvertite in un dato momento subiscono una rielaborazione continua che può confermare o confutare la verità. 

Ed è impossibile, per noi, parlarci con questa verità. Essa è come una vecchia signora con gli occhi rivolti all’indietro ad un passato inaccessibile e con le labbra cucite che le impediscono di comunicare.

 

Luca Starita

Di sangue napoletano, di crescita senese, di maturità fiorentina, si laurea a Bologna in Italianistica. Per questo suo spostarsi continuo le radici, i sogni, la definizione sono temi fondanti della sua scrittura. È autore del romanzo La tesi dell’ippocampo, pubblicato nel 2019, e di alcune drammaturgie teatrali. Collabora, inoltre, con la rivista «Cultweek». Per Effequ Edizioni ha pubblicato Canone ambiguo. Della letteratura queer italiana (2021) e Pensiero stupendo (2023).

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