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Trippa e destino

By 31 Maggio 2023 No Comments

Trippa e destino

Antonello Sarro

Più che un libro mi sembrava un totem, enorme, massiccio nelle sue più di mille pagine. Il talismano della felicità, mastodontico ricettario, era un monolite che sorvegliava la nostra famiglia da sopra il camino della sala, nella buona e nella cattiva sorte, con la copertina scollata, levigato dal tempo, leggermente sporto in avanti, verso il vuoto. Lì, al suo posto. Anno dopo anno. A volte passavano mesi senza che nessuno lo toccasse, ma lui se ne stava sempre lì dove doveva stare. Perché i libri di ricette sono la cosa più vicina ai libri di magia che stanno nelle favole.

 

 

Ricordo bene il giorno in cui vidi mia madre consultare le pagine de Il talismano alla ricerca della ricetta della trippa al sugo, e ricordo altrettanto bene, e assai vividamente, di come non solo la cucina, ma l’intera casa fosse pervasa da un odore nauseabondo di interiora e di escrementi. Magari la mamma aveva mal interpretato la formula magica per trasformare la trippa in un cibo commestibile, oppure aveva saltato troppi passaggi, o magari il macellaio non le aveva dato chiare istruzioni.

Ricordo però quell’odore, e ricordo anche che nei giorni successivi ci sarebbe stata la festa di compleanno della compagna di classe più carina, di cui ero segretamente innamorato dall’anno precedente. E in quinta elementare un anno dura una vita intera.

Di fronte al mio disgusto per l’orribile odore che aveva pervaso la casa, i miei genitori erano stati impassibili. Venivano dalla cultura contadina in cui non ci si può permettere di storcere il naso di fronte al cibo: si mangia quello che c’è senza fare discussioni.

Però quel fetore era terribile.

“Io quella roba non la mangio!”

“Bene — aveva fatto mia mamma impassibile — se non mangi non vai alla festa di Chiara!”

Avevo guardato il babbo con un misto di stupore e indignazione. Il babbo, impenetrabile, aveva aggiunto:

“Fa’ come dice tua madre”.

Frignando mi ero tappato il naso, e avevo mangiato lentamente quell’ammasso molle dal sapore escrementizio, troppo liquido e decisamente troppo saporito. L’avevo fatto per amore, per la festa di Chiara, per quello che credevo sarebbe stato lo spartiacque della mia giovane esistenza e che invece altro non fu che una festa qualunque, piuttosto banale anzi, in cui la compagna di classe riceveva indistintamente le mie attenzioni come quelle degli altri compagni, anche loro innamorati di lei ma — a differenza mia — non segretamente.

Quel giorno in qualche modo aveva segnato la fine della mia infanzia. Oltre a non essere più innamorato della mia compagna di classe mi ero promesso che non avrei più, mai più, mangiato trippa in vita mia.

 

 

E fu così per più di trent’anni.

 

 

Poi capitò un giorno di ritrovarmi a Firenze, durante l’inaugurazione di un’osteria in Santo Spirito. Mi ero trasferito da poco, forse un mese, ma sapevo che Firenze sarebbe stata la mia città. Era una sera calda e avevo addosso quel piacevole senso di eccitazione di quando tutto deve ancora accadere, ma sei sicuro che le cose andranno bene.

Ero felice, insomma, nonostante avessi visto tra la folla un giovane sindaco che stringeva mani  ai suoi concittadini e sorrideva affabile per essere rieletto. Lo stesso individuo che avrebbe pronunciato, qualche anno dopo, un sinistro «stai sereno» prima di vergare una plateale pugnalata alla schiena di un suo collega.

Un cameriere mi passò accanto.

“Gradisce?” fece indicandomi un vassoio ricolmo di trippa al sugo.

Mi ricordai della promessa fatta da bambino. Guardai negli occhi il cameriere. Era una bella serata ed ero di buon umore. Gli sorrisi.

“Ma sì!” risposi, e mi porse un piatto.

Portai la forchetta al naso, prima di assaggiare. L’odore era buono. Ripensai al folle esperimento culinario di mia madre, a quel tentativo di avvelenamento collettivo. Alla festa di Chiara che ora credo sia segnata sui social come «imprenditrice presso me stessa». Al fatto che alla sua festa non mi sarei dovuto limitare a guardare gli altri corteggiarla.

Feci un boccone e mandai giù.

Il cameriere probabilmente mi avrà preso per pazzo, perché mi si illuminò il volto ed esclamai, felice:

“Ma è buona!”

“Certo che è buona!” ribatté lui.

Mi feci riempire il piatto fino all’orlo e masticai lentamente trent’anni di diniego, sorridendo.

 

 

Firenze in tutto il suo splendore era lì fuori e e quella sera pareva stesse lì solo per me. E in mezzo a tutta quella gente che parlava di nulla, in un caldo che presto sarebbe diventato opprimente, continuai a masticare trippa, felice come un bambino, buttando giù finalmente il piatto che mia mamma mi aveva cucinato trent’anni prima, ritrovando in quel sapore perfino un barlume del suo affetto.

Antonello Sarro

È nato a Viterbo nel 1977. Ha conseguito laurea e dottorato di ricerca in Letteratura Italiana presso l’Università degli Studi di Siena. Nel 2019 ha pubblicato la sua prima raccolta di racconti Chi può essere a quest’ora? per GD Edizioni. Attualmente vive e lavora a Firenze.

Lettura consigliata
Il talismano della felicità
Ada Boni
"Di Voi, Signore e Signorine, molte sanno suonare bene il pianoforte o cantare con grazia squisita, molte altre hanno ambitissimi titoli di studi superiori, conoscono le lingue moderne, sono piacevoli letterate o fini pittrici, ed altre ancora sono esperte nel tennis o nel golf, o guidano con salda mano il volante di una lussuosa automobile. Ma, ahimè, non certo tutte, facendo un piccolo esame di coscienza, potreste affermare di saper cuocere alla perfezione due uova al guscio." Ada Boni così iniziava, quasi settanta anni or sono, la dedica alle lettrici in una delle prime edizioni de "Il Talismano della Felicità" manuale di cucina, che raccoglieva in maniera ordinata e sistematica tutte le ricette da lei pubblicate, sin dal 1915.