«La prego: accetti di curarlo»: questa richiesta è tanto frequente quanto inutile, per più di una ragione. Il motivo primario è che in psicoterapia viene chi vuole: non si può essere inviati e nemmeno spinti, non funziona neanche se qualcuno ci obbliga a stare nella stessa stanza con una terapeuta, chiude e butta via la chiave. Una moglie che voglia fare psicanalizzare il marito esisterà fino alla fine dei tempi, ma avrà sempre il medesimo risultato: zero. Più difficile che sia il marito a chiedere una psicoterapia per la moglie: gli uomini amano la polvere nascosta sotto il tappeto e badano a calpestare ogni giorno quel tappeto per sincerarsi che nasconda bene ciò che non deve emergere creando guai. Non mi sento di criticare né le mogli né i mariti: esiste una logica nello scoperchiare, ma anche nel mantenere accuratamente silenziose alcune criticità che potrebbero provocare un terremoto devastante.
La psicoterapia è un viaggio: si sa da dove si parte e ci si illude di immaginare dove si arriverà. La verità è che tutto può accadere, anche quando il patto iniziale sembra ferreo nei limiti che si pone. Una buona regola per i terapeuti è prendere nota di quale ambito i pazienti vogliano preservare: «Questa parte della mia vita va bene, non voglia che sia toccata». Di solito ciò che si vuole salvare dalla rivoluzione è parte rilevante del problema, ma ci si arriva passo dopo passo, facendo finta di rispettare la richiesta di salvaguardia del primo giorno. E per essere psicoterapeuti serve mettersi in gioco, serve la disponibilità a passare attraverso continue prove iniziatiche: non siamo immuni dal trauma dell’analisi. Scavare nella psiche è un esperimento reciproco: parteciparvi espone a un continuo mutamento, sincronico ai cambiamenti che avvengono dentro i pazienti.
Il romanzo che ancora possiede una grande parte della mia fantasia ha due protagonisti e una serie di personaggi collaterali: la potenza dei primi attori è così grande da rendere secondario il giovane medico Sigmund Freud, che vediamo dibattersi nei dubbi su quale specializzazione scegliere per il futuro. La storia ha inizio con il più scontato dei concetti: un disagio psichico dovrebbe essere percepito da chi lo vive, non solo dal mondo intorno; in pratica, si diventa pazienti quando si riconosce di avere bisogno di aiuto e si va personalmente alla ricerca di questo aiuto. Eppure, da psicoterapeuta riconosco l’umanità e la pressione ansiosa della richiesta di Lou Salomé al dottor Joseph Breuer all’inizio di questo portentoso, assoluto romanzo di Irvin D. Yalom: il suo amico Friedrich Nietzsche sta vivendo uno stato di profonda depressione e manifesta idee di morte, la situazione è preoccupante e urgente e richiede l’intervento di un medico. Motivato dalla seducente tenacia della giovane Lou e stuzzicato dalla voglia di conoscere e (forse) salvare il promettente filosofo, Breuer accetta di incontrarlo e, alle soglie dell’ammissione del fallimento di ogni tentativo di convincerlo a sottoporsi ai colloqui terapeutici, propone esattamente il contrario: sarà Nietzsche a vestire il ruolo del curante per aiutare lui, Joseph Breuer, a uscire da una profonda crisi esistenziale e coniugale.
L’espediente della cura reciproca non è nuovo nelle tematiche dello psicoterapeuta e scrittore Yalom: convinto che sia la relazione a costituire l’elemento di cura, costruisce le narrazioni su eventi che stabiliscono legami inusuali e potenti tra figure reciprocamente curative. Ma in nessun altro libro riesce così bene a immergerci in uno scambio di parole, assenze a presenze, frustrazioni e attese, illuminazioni ed emotività altalenanti come nelle lacrime di Nietzsche.
Psicoterapeuta e filosofo, filosofo e psicoterapeuta: gli scambi tra i protagonisti portano alle soglie di un abisso e danno a entrambi la spinta finale. Convinti di essere investiti dalla sacra funzione di curare l’altro essendo in grado di controllare il processo, Nietzsche e Breuer si accompagnano reciprocamente in una delle più clamorose rinascite cui i lettori e le lettrici abbiano accesso in un romanzo che è anche un perfetto manuale di psicoterapia. E, mantenendo fede alla convinzione di Irvin D. Yalom (che condivido in pieno), anche chi legge entra nella relazione di cura: farsi coinvolgere da questo romanzo significa accettare di uscirne, dopo, un po’ più veri, un po’ sconvolti, un po’ più sani. Una volta ho sentito qualcuno dire che i medici non sono in grado di diventare veri romanzieri: la storia della letteratura smentisce questo assunto, e chi lo afferma dovrebbe andare in psicoterapia. Ovviamente da Irvin D. Yalom.